Cresce in Svizzera il divario tra le retribuzioni di donne e uomini. L’economista Marialuisa Parodi: bisogna migliorare l’equilibrio tra lavoro e famiglia.
Le donne in Svizzera guadagnano mediamente il 19% in meno rispetto ai loro colleghi uomini, un divario che si sta approfondendo; la differenza ‘inspiegabile’, quindi discriminatoria (vedi infografia), è dell’8,1% (Ticino maglia nera: 11,2%), anch’essa in crescita. L’Unione sindacale svizzera ha definito “desolante” la situazione descritta nel rapporto finale dell’ultima analisi (2018) delle disparità salariali, pubblicato ieri dall’Ufficio federale di statistica (Ust). «Le cose non migliorano, purtroppo. E il fatto che siano cresciuti sia lo scarto salariale che la sua parte ‘non spiegata’, discriminatoria, deve farci riflettere», commenta l’economista Marialuisa Parodi, co-direttrice dell’associazione Equi-Lab, attiva nell’ambito della conciliabilità lavoro-famiglia.
Tre anni fa la quota ‘inspiegabile’ dello scarto salariale era del 55%. In pratica eravamo ai livelli del 2012 (56%). Le cose non sono migliorate, ma nemmeno peggiorate.
Ho le mie remore rispetto a questa distinzione tra ‘spiegata’ e ‘non spiegata’. Non possiamo stare tranquilli semplicemente perché in fondo ‘solo’ l’8,1% della disparità salariale è ‘non spiegata’, vale a dire non riconducibile a fattori ‘oggettivi’. La parte ‘spiegata’, infatti, non è determinata da scelte compiute dalle donne, come questa rappresentazione apparentemente innocua vorrebbe lasciar intendere.
In che senso?
Per semplificare: se le donne lavorano a tempo parziale, la differenza salariale statisticamente è spiegata. Il fatto è che le donne lavorano part-time perché sono sottoccupate, non perché lo vogliano. La disparità salariale è la conseguenza di una serie di lacune che il nostro sistema presenta. Sul piano della conciliabilità tra lavoro e famiglia, ad esempio. Ma penso anche alle pressioni sociali, alla scarsa abitudine a considerare le donne adatte a ruoli direttivi, o ancora alla scarsa protezione legale della maternità. Le condizioni quadro sono molto, molto deboli per le donne. Non a caso la Svizzera è quasi fanalino di coda tra i Paesi Ocse per quel che riguarda le strutture di accoglienza dell’infanzia, una cosa abbastanza incredibile considerato il nostro reddito pro capite.
Senza dimenticare poi che le donne in Svizzera sono svantaggiate anche a livello statistico. Sui giovani, ad esempio, si effettuano numerose indagini e abbiamo a disposizione molti dati, costantemente aggiornati. Sulle donne non c’è la stessa attenzione. Prova ne è che oggi, nel giugno del 2021, stiamo ragionando su dati del 2018.
Il Ticino è primo nel settore pubblico (3,1% di scarto salariale non spiegato), ma ultimo nel settore privato (11,9%). Come si spiega quest’ultimo dato?
Il Ticino ha per esempio una percentuale inferiore di partecipazione delle donne al mercato del lavoro e una quota maggiore di donne sottoccupate, o impiegate part-time. Parliamo di una serie di fragilità tipiche del lavoro femminile, accentuate rispetto al resto della Svizzera. Logico quindi che tutto ciò si rifletta sulla punta dell’iceberg, la differenza salariale. Del resto ne abbiamo avuto conferma durante la pandemia: lo scorso anno, ma anche nei primi mesi del 2021, la perdita di impieghi femminili in Ticino è stata davvero incredibile in alcuni trimestri, e comunque superiore che altrove in Svizzera.
Un dato che balza all’occhio nell’analisi dell’Ust è che le persone sposate sono maggiormente discriminate rispetto a quelle non sposate. Come lo spiega?
La mia ipotesi è che le persone sposate in genere hanno dei figli; e dal momento in cui una donna diventa madre, la sua situazione lavorativa peggiora drasticamente. Peggiora perché probabilmente sarà costretta – per accudire il nascituro – a ridurre il proprio tempo di lavoro; e perché c’è una cultura sociale che porta molti datori di lavoro a credere che una neo-madre sia meno motivata ad assumere ulteriori responsabilità, ad avanzare professionalmente. Ovviamente questo si ripercuote poi sul salario.
I dati sono del 2018, precedenti l’entrata in vigore della revisione di legge che impone a enti e aziende con più di 100 collaboratrici e collaboratori di effettuare un’analisi interna della parità salariale. Crede che queste verifiche spingeranno i datori di lavoro a riflettere sulle proprie pratiche e se del caso a correggere il tiro?
Non sarà questa revisione – talmente tormentata da essere l’ombra di sé stessa – a far muovere le acque. Mi spiego. La verifica non porta su un anno, ma su un solo mese. Le aziende hanno tempo fino a fine giugno per sceglierlo e realizzare l’analisi. Da lì in poi avranno un altro anno per sottoporla a un ente certificatore. Successivamente, avranno un ulteriore anno per comunicare i risultati ai dipendenti. Se usciranno disparità eclatanti, le aziende dovranno ripetere l’esercizio. Ma se le disparità non saranno così marcate, sono a posto in linea di massima per 12 anni. Capirà che durante questo lasso di tempo non ci si può aspettare granché dalla nuova legge, che oltretutto non prevede sanzioni. Quello che a mio avviso succederà, invece, è che le cose cambieranno grazie alla ‘spinta’ delle molte aziende virtuose che – anche perché hanno donne nei ruoli decisionali – possono vantare già da parecchi anni una certificazione della parità salariale. Ad ogni modo, la questione non è destinata a risolversi finché le lacune a livello di politica familiare non verranno colmate.
A cosa pensa, in particolare?
La chiave è la conciliabilità tra lavoro e famiglia. Il fatto che due giovani genitori siano costretti a considerare che, con un figlio all’asilo nido, devono mettere sul tavolo uno stipendio, è assurdo. Senza parlare di come è tassato attualmente il lavoro femminile! Se favoriremo la conciliabilità lavoro/famiglia, contribuiremo tra l’altro a evitare di sprecare tutti i talenti femminili che in Svizzera stiamo formando. Parlo di ragazze e donne che oggi – a causa di una politica familiare non all’altezza, improntata a una suddivisione tradizionali dei ruoli – trovano sbocchi insufficienti e spesso inadeguati sul piano professionale e sociale in generale. Penso anche alle opportunità offerte dallo smart working, che durante la pandemia non ha provocato scossoni sul piano della produttività aziendale, anzi. Un margine di manovra esiste pure a livello di promozione del part-time per gli uomini, che sono ancora penalizzati quando scelgono questa opzione. Si tratta insomma di superare schemi mentali che inducono certi datori di lavoro, pubblici e privati, a considerare ancora le competenze genitoriali – la maternità, la paternità – come non importanti, o addirittura penalizzanti, sul piano professionale e della produttività aziendale.