Svizzera

Eritrea, andata e (non) ritorno

Denise Graf di Amnesty International sul riesame dei permessi F degli eritrei e i diritti umani nel paese africano.

12 maggio 2018
|

Una parte degli eritrei ammessi a titolo provvisorio in Svizzera si vedrà revocare il permesso F. Ma molti di loro non potranno tornare in patria, sostiene Denise Graf. Per la responsabile del dossier asilo alla sezione svizzera di Ai, alle persone colpite non resterà che far capo agli aiuti urgenti. Graf auspica poi maggiore umanità sui casi di persone vulnerabili in procedura Dublino. E si dichiara ‘scioccata’ nel constatare le differenze nell’attuazione delle nuove procedure fra un centro federale e l’altro. 

 

Adeguandosi a sentenze di principio del Tribunale amministrativo federale (Taf), la Segreteria di Stato della migrazione (Sem) ha reso più severa la sua prassi nei confronti dei cittadini eritrei: dallo scorso anno, coloro che non sono ancora mai stati reclutati per il servizio militare, sono stati esentati o licenziati da quest’ultimo, non ottengono più automaticamente protezione (statuto di rifugiato o ammissione provvisoria) in Svizzera; e il ritorno in Eritrea di chi non ha un conto aperto con il Servizio nazionale non è più da considerare inammissibile. Poco meno di un anno fa, respingendo il ricorso di un eritreo colpito da una misura di espulsione, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha in sostanza legittimato il nuovo orientamento. Segno che la Svizzera sta seguendo una strada giusta, o perlomeno ragionevole? Non esattamente, secondo Denise Graf. «Il caso – spiega alla ‘Regione’ la coordinatrice asilo della sezione svizzera di Amnesty International – è pendente al Comitato Onu contro la tortura (Cat). Se, come probabile, la decisione del Cat farà riferimento alla situazione generale in Eritrea, documentata negli ultimi anni in vari rapporti dell’Onu, la nuova politica elvetica sarà rimessa in discussione».

Denise Graf, a inizio aprile la Sem ha annunciato il riesame dello statuto di 3’200 eritrei ammessi provvisoriamente in Svizzera, su un totale di 9’425. Ora si sa che il permesso F sarà revocato soltanto a una esigua minoranza di queste persone. È sollevata?

I timori restano comunque. A preoccuparci molto è il fatto che molte di queste persone hanno firmato una lettera di pentimento e pagato la ‘tassa’ del 2% sul reddito [per normalizzare la loro situazione nei confronti delle autorità eritree, ndr]. Non abbiamo nessuna idea di come queste lettere – che contengono un’ammissione: ‘Abbiamo fatto qualcosa di illegale’ – verranno usate. Forse per chi le sottoscrive non vi saranno conseguenze immediate una volta tornati in patria. Ma non sapremo mai se vi saranno problemi un mese, due mesi, un anno dopo, perché all’improvviso queste lettere saltano fuori. Se gli eritrei si rifiutano di presentarsi alla loro ambasciata, non potranno rientrare in patria, anche se il permesso in Svizzera gli è stato revocato. Finiranno quindi all’aiuto d’urgenza.

Di chi stiamo parlando?

Soprattutto di giovani adulti con bambini. Che potrebbero essere integrati, e che invece verranno durevolmente emarginati dalla società. Il problema è che non si pensa alle conseguenze di simili decisioni su persone giovani che hanno una vita intera davanti.

Non sappiamo al momento quante decisioni di espulsione verranno pronunciate nei confronti dei cittadini eritrei ammessi provvisoriamente. Quel che è certo è che poche potranno essere attuate...

È così. Constato un’enorme paura: le persone interessate non vogliono andare all’ambasciata per tornare nel loro paese. Siamo in contatto regolare con un cittadino eritreo che vive in Svizzera. In novembre due sue nipoti sono state arrestate mentre tentavano di lasciare illegalmente l’Eritrea. Una di queste giovani donne ha un figlio ed è stata incarcerata in una struttura relativamente vicina a dove abita la sua famiglia, con la quale può avere contatti regolari. L’altra donna, invece, aveva lasciato il servizio militare per andare all’estero: è stata detenuta per tre mesi senza avere la possibilità di contattare la famiglia, dopodiché sarebbe stata trasferita nell’unità militare alla quale era destinata; sei mesi dopo la sua incarcerazione, la sua famiglia non ha ancora potuto parlare con lei.

Cosa ci dicono questi casi sulla situazione dei diritti umani in Eritrea?

La situazione sotto questo profilo resta estremamente precaria. Parliamo di un paese che funziona senza Costituzione, senza leggi approvate da un Parlamento (è stato eletto, ma non si è mai riunito; e i suoi deputati sono in buona parte rifugiati all’estero), senza tribunali indipendenti: di un paese, insomma, dove tutto il potere è concentrato nelle mani del presidente e della sua cerchia, nel quale non vi è alcuna struttura di un normale Stato di diritto. Cosa ne sarà, in un contesto del genere, delle persone che saranno tornate in patria con una lettera di pentimento? Come verranno considerate queste ultime? Non va dimenticato, inoltre, che in Eritrea le persone non hanno la possibilità di scegliere liberamente cosa fare e dove farlo. È lo Stato che decide del loro avvenire.

L’Eritrea non accetta il ritorno forzato di suoi cittadini. E un accordo di riammissione tra Berna e Asmara non è un’opzione realistica a corto-medio termine. Cosa potrebbe fare la Svizzera per favorire – anche indirettamente – il rientro volontario degli eritrei nel loro paese?

La Svizzera e gli altri paesi devono fare pressione affinché la situazione dei diritti umani cambi. La fuga di molti loro cittadini sta mettendo alle strette le autorità eritree. Ad esempio: in Eritrea manca manodopera indigena in diversi settori (insegnamento, salute ecc.), si fa quindi capo sempre più a lavoratori provenienti dall’estero. Cambiamenti sono inevitabili. L’anno scorso era stata promessa tra l’altro una nuova Costituzione. Vedremo. La Svizzera da parte sua potrebbe svolgere un ruolo più attivo nel conflitto, mai risolto, tra Eritrea ed Etiopia: potrebbe così guadagnare punti e cominciare a costruire una relazione di fiducia con le autorità del paese africano, che potrebbero aprirsi un po’. Ma non sarà facile. Basti pensare che in Eritrea il personale delle rappresentanze diplomatiche può circolare nel raggio di 25 km attorno ad Asmara, la capitale; per spingersi oltre è necessaria un’autorizzazione. E le autorità eritree sono molto sensibili a qualsiasi critica che riguardi i diritti umani.

L’Eritrea rimane di gran lunga il principale paese di provenienza dei richiedenti asilo in Svizzera. Ma lo scorso anno il numero delle nuove domande ha subito un calo del 35 per cento, e una parte di esse riguarda figli di persone rifugiate in Svizzera e casi di ricongiungimento familiare. Com’era successo con i cittadini della ex Iugoslavia, poi con i nigeriani, quindi con i siriani e gli iracheni, anche ‘l’ondata’ di eritrei sembra piano piano esaurirsi. Come mai?

Ciò è dovuto principalmente al fatto che le vie di fuga dall’Eritrea – la prima passa da Sudan, Egitto e Israele; la seconda da Sudan/Etiopia, Libia e Italia – si sono praticamente chiuse, per svariate ragioni. In Libia, ad esempio, tutte le persone che fuggono dai paesi africani rischiano la detenzione, di subire tortura, violenze sessuali e di altro tipo: insomma, le peggiori violazioni dei diritti umani. E, in seguito alla collaborazione tra l’Europa e la Libia, non c’è quasi più uscita verso l’Italia. Due persone, un uomo e una donna rimasti bloccati in Libia, sono venute assieme in Svizzera lo scorso anno: una loro parente non è sopravvissuta; la donna – violentata a più riprese – si è salvata per miracolo; e l’uomo è stato orribilmente maltrattato. I due stanno molto male: hanno appena cominciato una terapia. Queste informazioni giungono agli eritrei rimasti in patria o profughi nei campi in Etiopia, che esitano a partire in direzione della Libia oppure seguono altre vie – più lunghe – per arrivare da questa parte del Mediterraneo. In sintesi: per un cittadino eritreo è diventato molto, molto difficile raggiungere l’Europa.

Una delle preoccupazioni principali di Amnesty per quel che riguarda la politica d’asilo in Svizzera è il rinvio verso paesi terzi di persone particolarmente vulnerabili nell’ambito della ‘procedura Dublino’. Cosa state facendo al riguardo?

Abbiamo definito nove categorie di persone particolarmente vulnerabili colpite da queste decisioni di rinvio: donne vittime di tratta; famiglie separate (padre o madre con statuto in Svizzera, gli altri membri della famiglia vengono rinviati verso il paese di primo asilo); vittime di tortura; donne vittime di violenza domestica in un paese terzo, dove il marito è rimasto, mentre loro, non trovando protezione lì, sono venute in Svizzera; donne sole con figli a carico; donne incinte; persone con seri problemi di salute; persone che da tempo sono in procedura Dublino, i cui figli vanno a scuola qui e sono bene integrati; persone che hanno parenti stretti in Svizzera, dai quali dipendono per varie ragioni (problemi di salute ecc.). Sui casi che rientrano in certe tipologie ci aspettiamo un’apertura da parte della Sem, a maggior ragione alla luce di alcune sentenze del Taf che vanno nel senso da noi auspicato, nelle quali il tribunale ha fortemente criticato la politica della Segreteria, ad esempio nei confronti delle vittime di tratta. Non stiamo parlando di migliaia di casi. Ma la Svizzera in questi casi può fare un gesto umanitario ed entrare in materia sulla base dell’accordo di Dublino, mostrando così anche solidarietà con i paesi ai confini dello spazio Schengen/Dublino, come l’Italia o la Grecia, che si assumono un onere importante nell’accoglienza dei richiedenti asilo.

Approvata alle urne due anni fa, la nuova legge sull’asilo che centralizza e velocizza gran parte delle procedure sta entrando in vigore a tappe. Qual è il bilancio intermedio di Amnesty?

L’attuazione della nuova legge deve avvenire in maniera equa e uniforme in tutti e sei i centri federali previsti. Siamo scioccati nel constatare che a Boudry (Neuchâtel) viene svolta una procedura d’asilo apparentemente diversa da quella in vigore nel centro test di Zurigo. Abbiamo l’impressione che nel centro di Boudry si cominci da zero: gli stessi problemi che avevamo visto a Zurigo all’inizio, anni fa, si stanno manifestando qui. In altre parole: non si sta facendo tesoro dell’esperienza accumulata nel centro test zurighese. E questo è assai preoccupante in vista dell’apertura, il prossimo anno, di altri quattro nuovi centri federali. Ricordiamo alla Sem che esiste un principio di uguaglianza di trattamento che va rispettato: ci aspettiamo che i richiedenti asilo siano trattati allo stesso modo, indipendentemente dalla struttura nella quale vengono esaminate le loro domande.