La Coppa del mondo del 1990 vide protagoniste per l’ultima volta le nazionali di Paesi dell’Est che stavano scomparendo
Quello giocato in Italia nel 1990 era solo il terzultimo Mondiale di calcio del ventesimo secolo – mancavano in effetti ancora Usa 94 e Francia 98 – ma in realtà fu quello che davvero chiuse il Novecento sia a livello sportivo sia per quanto riguarda il contesto storico e politico in cui venne disputato. Fra le ventiquattro squadre che vi presero parte, infatti, non poche risultavano prossime alla sparizione, proprio come i Paesi di cui erano emanazione. Fallito il sistema comunista – al suo interno ma pure nel confronto col modello capitalista di cui voleva essere alternativa – la carta geografica dell’Europa stava per essere stravolta. Jugoslavia, Cecoslovacchia, Unione Sovietica e Germania Ovest, infatti, erano nomi ed entità politiche destinati di lì a poco a passare alla storia. Senza dimenticare la Romania, che pur non smettendo di esistere era da poco passata attraverso la destituzione del sanguinario dittatore Ceausescu. Quell’insurrezione servì da esempio a tutto il Blocco dell’Est e pose le basi per la rivoluzione su vasta scala che avrebbe di fatto messo fine alla Guerra fredda, conflitto dai delicatissimi equilibri combattuto un po’ ovunque negli ultimi quattro decenni. La Cecoslovacchia, fra le squadre d’Oltrecortina, era quella che nella storia dei Mondiali – insieme all’Ungheria assente a Italia 90 – aveva avuto maggior fortuna. Nel 1934 era giunta infatti in finale, dove si arrese all’Italia padrona di casa che godette di evidenti aiuti. Erano tempi in cui, con magiari e austriaci, i cecoslovacchi dominavano il calcio continentale secondo i dettami tattici della celebre scuola danubiana, avanti anni luce su tutte le altre. Tranne forse a quella delle Home Nations, la cui forza era però più supposta che palesata, visto che gli inventori del gioco quasi mai accettavano di misurarsi con chi non era suddito della corona britannica. A un passo dal titolo la Cecoslovacchia giunse pure nel 1962 in Cile, quando dovette soccombere al Brasile che, pur privo dell’infortunato Pelé, era davvero troppo forte. Salomonicamente presente a Italia 90 con 12 cechi e 10 slovacchi, la Cecoslovacchia si arrese nei quarti di finale alla Germania Ovest solo per un calcio di rigore a sfavore. Una maniera più che dignitosa per accomiatarsi: poco dopo infatti il Paese si divise in Slovacchia e Repubblica Ceca, dando vita a due nuove rappresentative nazionali. Fu una delle dissoluzioni politiche meno dolorose fra quelle che caratterizzarono gli anni 90: del resto, fra cechi e slovacchi non c’era troppo astio, né sussistevano soverchi problemi di tipo religioso e culturale, semplicemente Praga e Bratislava volevano fare ognuna per sé.
Più complicato fu il processo che trasformò l’Unione Sovietica in una Russia circondata da una costellazione di nuovi Stati con lingue, culture e confessioni diverse. Per quel che concerne il pallone, l’Urss partecipò a Italia 90 senza giocatori lituani, lettoni o estoni, visto che già prima del torneo erano giunte le prime dichiarazioni d’indipendenza. Vicecampione d’Europa, la squadra sbarcò nel Belpaese con molte ambizioni, ma l’avventura terminò con un fiasco clamoroso: ultima e unica eliminata nel girone di Argentina, Camerun e Romania. Curiosa, ma non sorprendente, la composizione etnica di quel team. Il Ct Lobanovski, ucraino, convocò infatti ben 12 suoi compaesani: d’altronde, da sempre Kiev e Donetsk erano il serbatoio del calcio sovietico, e non è un caso che i palloni d’oro Blochin, Belanov e (più tardi) Shevchenko provenissero tutti da lì. Per il resto, 5 russi, 3 bielorussi, 1 georgiano e 1 turkmeno. Poche, e insignificanti, furono le successive partecipazioni ai Mondiali delle nazionali ex sovietiche.
Lunghissimo e tragico all’inverosimile fu invece il travaglio che trasformò la Jugoslavia negli Stati balcanici che conosciamo oggi. Fu solo attraverso una guerra senza quartiere – in cui vennero sfogati rancore e odio covati per decenni sotto un rigidissimo regime centralista – che popoli assai diversi fra loro riuscirono a trovare infine una vita propria. Nell’estate del 1990 nemmeno si poteva immaginare l’inferno in cui il Paese sarebbe caduto: al massimo gli appassionati di pallone potevano notare che i croati, benché numericamente rappresentassero un terzo della rosa (7), in campo ci andavano pochino. Il Ct Osim, bosniaco, privilegiava infatti i suoi corregionali (6), i serbi (4), i macedoni (2), i montenegrini (2) e il solo sloveno presente. Fra chi più premeva per affrancarsi da Belgrado c’erano infatti i croati, che dunque andavano puniti in tutti i modi, anche sui campi di pallone. Un paio di mesi prima dei mondiali italiani, si era verificato a Zagabria un episodio assai eloquente: allo Stadio Maximir, prima di Dinamo-Stella Rossa Belgrado, i tifosi serbi guidati da Zeljko Raznatovic – noto genocida che diventerà famoso qualche anno dopo col nome di battaglia di Arkan – aggredirono selvaggiamente i tifosi locali. I quali, invece di essere protetti dalla polizia, finirono per prender botte pure dagli agenti, tutti fedeli alla capitale. A difesa di un simpatizzante della Dinamo che veniva manganellato, intervenne il capitano Zvonimir Boban – futuro milanista – sferrando calcioni ai poliziotti. La federcalcio jugoslava lo squalificò per nove mesi, impedendogli così di partecipare alla Coppa del mondo.
Quell’epica rissa ancora oggi viene ricordata come uno dei fattori scatenanti della Guerra d’indipendenza croata, preludio di tutti i conflitti balcanici che avrebbero scandito per intero gli anni 90. Dalla frammentazione che ne seguì, nacquero diversi nuovi Paesi, ognuno provvisto della propria squadra nazionale, nessuno dei quali riuscì però a raggiungere risultati di rilievo a livello mondiale. Fatta eccezione naturalmente per la Croazia, che non smise mai di sfornare campioni e che, ancora in fasce, nel ’98 in Francia colse uno strepitoso terzo posto e che in Russia vent’anni dopo fece addirittura meglio, chiudendo seconda. Fra tante divisioni ci fu anche chi – in netta controtendenza – nell’ormai lontana estate del ’90 pensò bene di combinare un matrimonio: ci riferiamo ai tedeschi, che dopo quasi 50 anni di camere separate fra Est e Ovest, decisero di riprendere a copulare. E il regalo di nozze che la Fifa fece a sposi tanto coraggiosi fu di enorme valore: parliamo della Coppa, che in finale l’Argentina si vide scippare dall’arbitro messicano Codesal, che fischiò il rigore più ridicolo della storia della manifestazione.
Ultimo Mondiale prima dell’avvento di telefonini e informatizzazione globale, Italia 90 fu pure l’ultimo torneo in cui la vittoria fruttava due punti e dove i portieri potevano raccogliere con le mani i retropassaggi effettuati coi piedi, pratica che favoriva infinite fasi di irritante melina. I telespettatori finivano per allontanarsi dagli schermi, gli sponsor minacciavano di stringere i cordoni della borsa, e la Fifa provvide a introdurre regole per tamponare l’emorragia. Ma, soprattutto, i meno giovani ricorderanno che quel torneo, alla vigilia, venne insistentemente spacciato come il Mondiale del fair play, concetto che gli organizzatori trasformarono in un mantra sfiancante ma del tutto inefficace, vista la violenza poi mostrata in campo e fuori. Nel match inaugurale del Meazza, i difensori camerunesi scatenarono una caccia all’uomo senza precedenti per una gara in mondovisione, e fu un miracolo se Caniggia e Maradona riuscirono a salvare la pelle. Memorabile, oltre alla devastazione dei centri storici perpetrati dagli hooligan di tutta Europa, fu pure il doppio sputo in faccia rifilato da Rijkaard al tedesco Völler, il quale finì espulso – non si sa perché – insieme all’olandese: forse fu una scelta dettata dal fair play, giusto per evitare ai Tulipani di giocare in inferiorità numerica.
Questa è la quattordicesima puntata di una serie dedicata alla storia della Coppa del mondo di calcio che ci accompagnerà fino a novembre, nell’immediata vigilia di Qatar 2022.