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Il clamoroso autogol del silenzio stampa

A volte, le scelte strategiche e di comunicazione di alcuni club risultano davvero di difficile comprensione, oltre che altamente autolesionistiche

12 novembre 2024
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Ci sono sodalizi sportivi ticinesi caduti così in basso (come campionato d’appartenenza, risultati ottenuti e numero di biglietti staccati al botteghino) che – vedendo la stampa ancora occuparsi di loro – dovrebbero commissionare un ex voto alla settimana. O quantomeno, come diceva mio nonno, dovrebbero segnarsi con un gomito. E invece, al posto di ringraziare Manitù per la fortuna di cui godono, pensano bene di proibire ai propri giocatori di parlare coi cronisti. Colpa, pare, delle già citate deludenti performance in campo. Come se, evitando di far due chiacchiere coi media, si potesse automaticamente alzare il livello delle proprie prestazioni.

In realtà, il cosiddetto silenzio stampa non ha mai portato benefici a nessuno, né ai consiglieri di Stato né tantomeno ai pedatori in crisi. Il solo caso che si ricordi in cui l’astenersi dal comunicare coi giornalisti sia stato foriero di fortuna risale a mille anni fa, quando a proclamare la messa al bando di microfoni e taccuini furono gli azzurri di Enzo Bearzot, che condussero la loro cavalcata verso il titolo Mondiale di Spagna 82 proprio a bocche cucite.

Ma, quella volta, avevano ragione da vendere: buona parte della stampa, infatti, nell’immediata vigilia del torneo si era comportata in modo vergognoso nei confronti della squadra, arrivando a insinuare che gambe molli e scarso fiato fossero figli dei festini gay che avevano luogo in alcune delle camere che i giocatori occupavano nel ritiro di Pontevedra. I cronisti insomma, mingendo con pessima mira, se l’erano andata a cercare.

Proprio non si capisce in quale modo rifiutarsi di parlare con la stampa possa contribuire a sanare una crisi agonistica. Anzi, tagliare fuori quotidiani, radio e tv, cioè chi è preposto a far da tramite e cassa di risonanza fra i giocatori e i tifosi è soltanto un clamoroso autogol. Specie se, come club, nella cura dei rapporti con la cosiddetta piazza non ti sei certo dimostrato fin qui un califfo, e non mi pare che serva poi un dottorato al MIT per capirlo.

Gli americani – che avranno senza dubbio qualche difetto, ma che nella gestione dello sport professionistico danno lezioni a tutti – posseggono invece piena coscienza che la stampa, anche nell’odierna età dei social, occupa ancora un ruolo fondamentale per la divulgazione di testi e immagini di carattere sportivo, ed è proprio grazie al suo operato se poi le franchigie ricavano di più dal merchandising e trovano munifici sponsor più facilmente. E, dunque, va trattata come merita, cioè bene: non per ingraziarsela, ci mancherebbe, ma perché da un’intelligente collaborazione traggono poi beneficio entrambe le parti. Il risultato è che il silenzio stampa, laggiù, semplicemente non è contemplato: se un giocatore rifiuta di rispondere ai cronisti, dai suoi dirigenti viene punito con significative decurtazioni di salario. E se invece la malsana idea di rifugiarsi nel mutismo venisse agli stessi vertici di un club, le sanzioni economiche da parte delle grandi leghe di cui fanno parte sarebbero così ingenti da far loro rischiare la bancarotta.

Da noi, invece, pare che queste ovvie regole vengano ogni tanto dimenticate, e così ci ritroviamo davanti ad alzate d’ingegno che nuocciono a tutti. Ricordo, in questo senso, quando una ventina d’anni fa chiamavo per strappare due parole da diffondere in radio qualche giocatore delle quattro compagini calcistiche ticinesi, allora tutte militanti nel torneo cadetto. Ebbene, più l’atleta in questione era scarso e più faceva il figo, dicendomi che – per poter parlare con lui – sarei dovuto passare per il filtro del suo agente. Davvero esilarante, non fosse stato patetico. Poi, magari, cinque minuti più tardi facevo uno squillo a Clay Regazzoni o a Gianni Rivera – fuoriclasse di livello planetario – i quali mai si negavano a nessun giornalista, fosse del New York Times o del Roncapiano Chronicle.

Io trovo alcuni dei nostrani dirigenti sportivi innegabilmente simpatici – e non l’ho mai nascosto – ma devo ammettere che averci a che fare professionalmente può risultare a volte un po’ difficoltoso.