Due giocatori simbolo di Lugano e Bellinzona hanno mostrato amarezza per il trattamento riservato loro dai club, apparentemente privo di riconoscenza
Sono segnali che fanno preoccupare i tifosi quelli lanciati negli ultimi giorni da Fc Lugano e Ac Bellinzona, le due società di punta del calcio ticinese. Per la verità, a gettare il sasso nello stagno non sono stati direttamente i due club, bensì due dei loro giocatori, che hanno comunicato un certo malessere e una certa delusione. E a farlo non sono stati un paio di atleti fra i tanti, presi così a caso, ma proprio i due uomini più rappresentativi delle rispettive compagini.
Nel caso granata, si tratta di Matteo Tosetti, che insieme a Dragan Mihajlovic rappresenta l’anima locale – sopracenerina doc – della squadra della capitale. Al termine di un altro campionato caratterizzato da risultati di squadra estremamente altalenanti, il 32enne centrocampista non è riuscito a trattenersi e ha fatto sapere che, oltre al rammarico per aver nuovamente deluso i sostenitori con prestazioni come detto prive della necessaria continuità, nello spogliatoio granata c’è anche parecchio smarrimento per la mancanza di chiarezza che domina questo finale di stagione. A sua detta, infatti, pur avendo ottenuto la salvezza nel torneo cadetto con un certo anticipo, sotto i Castelli impera una totale mancanza di programmazione e di una chiara visione del futuro.
Pare infatti che a nessuno dei giocatori sia stato ancora rinnovato il contratto per la prossima stagione, ed è dunque normale che ad aleggiare sia la preoccupazione. Per queste persone, infatti, il calcio è la fonte primaria di sostentamento, e l’incertezza sul proprio futuro – per uno sportivo professionista – è quanto di meno auspicato possa esserci. Specie per chi, come Tosetti appunto, non è più un ragazzino (classe 1992) e, come si dice, tiene ormai famiglia, cioè figli a cui dover provvedere.
Finora, ha pazientemente aspettato un cenno dalla società – a cui darebbe ovviamente la precedenza – ma è del tutto legittimo che, ormai stringendo il tempo, cominci a guardarsi in giro. La cessione del club a potenziali acquirenti – che in inverno era stata spacciata come fosse ormai cosa fatta – non si è ancora concretizzata. Ma, continuando così, c’è il rischio che – anche dovesse davvero andare in porto – i nuovi padroni si ritrovino privi dei giocatori necessari ad affrontare una nuova stagione, perché nel frattempo si saranno, comprensibilmente, accasati altrove.
Diverso, ma ugualmente toccante, è il caso del capitano bianconero Jonathan Sabbatini, che al termine del penultimo turno del massimo campionato contro lo Zurigo ha affidato ai microfoni della Televisione il suo disappunto – o meglio la sua grande amarezza – per la distanza fra quelle che sarebbero le sue pretese nei confronti della società e quanto i dirigenti gli hanno invece proposto per il prossimo anno. L’uruguagio, che nell’ultima dozzina d’anni ha rappresentato come nessun altro l’identità e il cuore del Lugano, parrebbe non più rientrare nei piani del club, almeno in veste di giocatore della prima squadra. Lui, però, malgrado gli anni che passano – ne ha già compiuti 36 – si sente ancora in grado di poter dire la sua ai massimi livelli del calcio svizzero. E le sue buone prestazioni, benché sempre più dosate, stanno a dimostrare che non si sbaglia.
Il problema è che – al contrario di quanto succede a Bellinzona – in riva al Ceresio di programmazione ce n’è fin troppa, come succede in tutte le grandi squadre. I successi di questi ultimi anni, infatti, sono proprio il frutto di una oculata e lungimirante gestione, la quale prevede però, purtroppo per Sabbatini, la valorizzazione dei giovani e la monetizzazione che da essa può derivare in caso di mercato in uscita. Una strategia che, per quanto fin qui dimostratasi pagante e vincente, non contempla ovviamente ulteriori investimenti su uomini che, come il capitano, sono destinati un domani a non fruttare al club nemmeno un franco. Discutibile finché si vuole, è comunque la strada battuta dal football moderno, che purtroppo non tende certo a commuoversi davanti alle bandiere, e non riconosce la gratitudine che a queste – in un mondo ideale – si dovrebbe invece mostrare.