Una notizia e un titolo che, a prima vista, potrebbero suscitare più di una perplessitÃ
So benissimo che, prima di accorgervi che ciò che pare un aggettivo o un sostantivo è in realtà un cognome, mi avete insultato ferocemente – con ogni probabilità tirando in ballo anche quella santa donna di mia madre – e che la cosa più gentile che avete pensato di me è che sono definitivamente uscito di senno.
Del resto, è esattamente ciò che anch’io ho pensato dei redattori di tuttocampo.it l’altroieri, quando ho letto nel web lo stesso titolo che io ho poi ripreso qui sopra.
Il fatto è che siamo ormai così pesantemente condizionati dall’esasperazione del politically correct – e dalle nuove regole (non scritte) di linguaggio che da essa derivano – da tenere radar, antenne e sirene d’allarme tarati, su noi stessi come sugli altri, in modo fin troppo sensibile.
E così fatichiamo a distinguere una maiuscola da una minuscola e siamo prontissimi a rilevare presenze di male anche dove proprio non ce n’è. La notizia riguarda infatti Paolo Negro, cinquantunenne ex bandiera della Lazio, ingaggiato appunto come selezionatore della squadra nazionale ugandese un paio di giorni fa.
Con la (scarsa) sensibilità in vigore mezzo secolo fa, un titolo simile avrebbe fatto sganasciare dal ridere tutti quanti. Vent’anni fa, all’inizio del terzo millennio, avrebbe al massimo suscitato un sogghigno. Oggi invece – per quanto oggettivamente una frase del genere non porti con sé nulla di offensivo – viene considerata quantomeno infelice e del tutto inopportuna.
Eppure, ai tempi in cui Negro giocava, a cavallo dei due secoli, era egli stesso a raccontare che i suoi avversari di colore facevano la fila – a volte sgomitando non poco – per poter scambiare con lui la maglia al termine delle partite, proprio per potersi accaparrare un prezioso cimelio che recava sulla schiena un cognome su cui tutti, africani compresi, riuscivano ancora a scherzare.
Se oggi le cose sono cambiate è perché, purtroppo, razzismo e intolleranza – invece di diminuire – vediamo molto bene tutti i giorni che stanno aumentando ovunque nel mondo, e non solo nei confronti di chi ha la cute più scura.
Colpa di un sacco di cose, piccole e grandi, vicine e distanti, di cui chi scrive ben poco sa, e delle quali dunque nemmeno proverà a dissertare. Ciò che racconterò – sempre restando in tema di pigmentazioni – riguarda invece il terribile trattamento riservato nella Repubblica d’Irlanda a una giovanissima ginnasta nera.
L’episodio risale alla scorsa primavera, ma le inequivocabili immagini che lo documentano sono diventate virali soltanto negli ultimi giorni. Nel filmato si vede una dirigente addetta alle premiazioni che – mentre al termine di una gara consegna una medaglia a ognuna delle bambine schierate in rango – quando si trova davanti all’atleta dalla pelle scura semplicemente la ignora, la lascia senza trofeo e riprende a distribuire i premi dalla bambina seguente.
Una faccenda scandalosa e squallida, che parrebbe incredibile se non fosse purtroppo verissima, a cui la Federazione irlandese di ginnastica artistica – che a mio parere andrebbe bandita per qualche anno dalle gare internazionali – non ha nemmeno tentato di porre rimedio, ignorando a più riprese le proteste dei genitori della piccola e bollando l’accaduto come il frutto di un banale errore.
Le scuse sono poi giunte pochi giorni fa, dunque alcuni mesi dopo il fattaccio, e soltanto perché la storia ha assunto, come detto, dimensioni planetarie – ne ha parlato giustamente scioccata pure Simone Biles, la fenomenale ginnasta afroamericana – e dunque i dirigenti irlandesi, messi alle corde, hanno infine dovuto provvedere a fare ammenda, non si sa quanto davvero contriti.
Questa sì che è vergognosa discriminazione, becero suprematismo, anche se – assai probabilmente – la premiatrice razzista sarà una di quelle anime belle attentissime a non usare in pubblico la parola proibita che inizia per n, e a bacchettare invece – ricavandone una bella insaponata per la propria coscienza – colori i quali, spesso senza malizia, ogni tanto vi fanno ricorso. Il razzismo, più che dal vocabolario, va eliminato innanzitutto dal comportamento.