Il racconto di due giornate nella località dell'Alta Valtellina a cavallo tra il supergigante e la discesa validi per la Coppa del mondo di sci
Mi trovo casualmente di fronte all’arrivo della pista Stelvio, a Bormio, mentre gli atleti rientrano al riposo dalla gara di supergigante, salutati dagli sparuti presenti in una località di villeggiatura decimata dalle restrizioni sanitarie. Si sta già lavorando alla discesa libera del giorno dopo, giù a fondo pista e in particolare all’elettronica e all’illuminazione. Con il mio giovane collega iniziamo a informarci sulle possibilità di vedere la gara, infiammate con vigore le nostre patologie di sciatori atavici. Le restrizioni che ci vengono enunciate sono sanitarie: mascherine, distanza di sicurezza, stare sempre all’aperto anche per prendere un caffè (è buono anche a dieci gradi sotto zero in un bicchierino di carta). Io incomincio a osare e mi annuncio per un accredito all’ufficio stampa dove vengo accolto da una coppia di burocrate ben accompagnate le quali, con toni fermamente ostili, mi pregano di andare via nonostante io evochi un esame sierologico negativo. Cerco un altro caffè (ogni caffè contiene anche la speranza di capire qualcosa). Mi intrufolo in un elegante androne di albergo il cui logo ingloba una croce bianca su campo rosso. Vengo subito intercettato dal titolare, comprendo che la porta era aperta per errore e il lucchetto infatti viene subito chiuso dietro di noi. Anziché però essere cacciati, comprendiamo di essere in uno dei centri di accoglienza della squadra nazionale svizzera («io sono amico di molti di loro perché ci correvo insieme negli anni settanta») e che «un piatto di pizzoccheri non si rifiuta», con la dovuta prudenza sanitaria. Non è un burocrate ma un intelligente commerciante come molti che incontro da giorni in Alta Valtellina. Restiamo d’accordo per un incontro l’indomani e cerco di capire da quale punto seguire meglio la gara. Dopo un paio d’ore di perlustrazione, sul bordo di uno dei passaggi cruciali della pista, mi rendo conto, grazie a uno scambio con due dipendenti della Rossignol, di essere di fronte alla uscita di servizio degli atleti della squadra nazionale italiana. Ottengo consigli su dove posizionarmi anche da un operatore di pista, al quale chiedo come va il lavoro di preparazione: «Bene, stamattina abbiamo iniziato alle quattro».
A quel punto la logistica è decisa e la mattina dopo sono accanto a un furgone sul cui finestrino leggo: D. Paris. Mi chiedo se gli sciatori vengono condotti alla partenza con l’auto di servizio o se si arrangiano come accadeva quando, bambino, venni fotografato accanto a un polpaccio di Erwin Stricker, grande più o meno quanto me (il polpaccio). Noto un paio di Nordica lunghi 212 centimetri e mi chiedo se possono essere quelli di Paris che vedrò uscire poco prima dell’inizio della gara, metterli in spalla, inforcarli e sedersi sulla seggiovia per andare a correre. Gli auguro una buona gara e mi risponde: «Speriamo, grazie». Altri lo salutano e lo incoraggiano. I suoi polpacci sono più coperti di quelli del suo glorioso corregionale («cavallo pazzo» era la definizione tecnica di Stricker), le sue spalle ammirevoli.
La gara è contrassegnata da alcuni punti di tensione. Ryan Cochran-Siegle è oggetto di forte pressione per i tempi registrati in prova e per la vittoria in supergigante; continua a ripetere che si sente veloce ma una libera non la ha mai vinta. Rischia due volte la caduta nel passaggio di peso in volo e si piazza settimo in una gara nella quale i primi sette stanno in 30 centesimi di secondo e i primi tre in 6. Vi è poi tensione sugli austriaci Vincent Kriechmayr (secondo il giorno prima) e su Matthias Mayer. La squadra svizzera può esprimere più di una carta vincente ma non si sa bene quale (un po’ come gli austriaci) mentre molta pressione viene fatta anche sugli italiani Dominik Paris, reduce da un infortunio, e Christof Innerhofer che sembra allontanarsi dal periodo di maggior efficienza e in super-G ha fatto una brutta gara.
Vince Mayer, poi Kriechmayr, Kryenbuehl, Paris e Caviezel.
Noi siamo interessati a cosa succede nella realtà di quella esasperazione di sollecitazioni che l’industria mediatica trasmette continuamente attraverso le riproduzioni video e che rende gli sciatori figure poco umane. Ricordo anche un film dedicato a Lara Gut nel quale Niccolò Castelli insisteva sulla dimensione onirica, in un certo senso di trascendenza, con effetti suggestivi e forieri di interrogativi. Vedendo gli atleti scendere nel vero, la naturalità plastica si riscatta dal riduzionismo immaginifico. Gli sciatori sono più belli, bravi e umani atleti che producono un fluido posturale ammirevole e le vibrazioni degli sci sulla pista producono un suono non paragonabile a ciò che i microfoni deformano per sensazionalismo.
Le varie componenti, plastica, dinamica, sonora, ritmica e metrica meriterebbero interpretazioni adeguate.
Finita la gara mi dirigo ai pattuiti pizzoccheri e discuto ancora con l’albergatore, contento per la prestazione del vincitore e degli svizzeri, in particolare i giovani Kryenbuehl e Odermatt. Poi mi dice che è venuto recentemente in Ticino a vedere il Fiore di Pietra progettato da Mario Botta: «Ha una relazione intensa con la Valtellina e con la Banca Popolare», mi dice. «È una persona simpatica e scaltra», gli rispondo e lui: «Sicuramente un tipo intelligente». È proprio un bel commerciante.