La federazione svizzera ancora una volta nel mirino della critica dopo i nuovi eccessi di Granit Xhaka
La Nazionale svizzera assomiglia tanto a quei monelli i quali, per quanto i genitori cerchino di imporre loro di rimanere lontano dai guai, proprio non riescono a non cacciarsi nei pasticci. Si sperava che la sfida di venerdì contro la Serbia potesse filare via liscia come l’olio, proprio perché mamma Fifa e papà opinione pubblica avevano bacchettato le due federazioni già quattro anni fa, quando a Kaliningrad volarono gli aquilotti. Ma chi vive sperando…
Purtroppo, la federazione svizzera ha un problema non da poco: il suo leader indiscusso è nel contempo un ragazzo incapace di tenere a freno le sue emozioni, come invece si dovrebbe esigere da chi al braccio porta la fascia da capitano. A quattro anni dallo scandalo di Kaliningrad, Granit Xhaka ci è ricascato. Ovviamente, ancora contro la Serbia. Che vi sia del risentimento da parte del centrocampista nei confronti di un Paese colpevole di aver causato tanti dolori alla sua famiglia è più che comprensibile. Che non riesca a tenere a bada questo rancore lo è molto meno, soprattutto nel contesto di una partita di calcio, a maggior ragione quando il risultato gioca a suo favore e si ritrova a un niente dall’umiliare per la seconda volta consecutiva la Nazionale di quel Paese che disprezza.
Gli insulti alla panchina serba e i relativi gestacci, la rissa con Milenkovic prima e Mitrovic poi nei minuti finali, la maglietta di Jashari indossata a fine partita sono tutte provocazioni inaccettabili da parte di chi, per la fascia che indossa, dovrebbe più di altri saper dar prova di moderazione ed equilibrio.
E non ci si può nemmeno aggrappare alla scusa della trance agonistica. Potrebbe essere una giustificazione accettabile per i primi due episodi, nei quali Xhaka potrebbe pure essere stato provocato dagli avversari (tuttavia, proprio perché in vantaggio, avrebbe dovuto dimostrarsi superiore e non cadere nella trappola), ma il terzo è assolutamente inammissibile. Certo, nessuno potrà mai dimostrare che il centrocampista dell’Arsenal abbia voluto indossare la maglia di Jashari in onore di Adem Jashari, fondatore dell’Uck e considerato un eroe dell’indipendenza kosovara (e un terrorista criminale dai serbi), ucciso nel marzo 1998 in un raid dell’esercito di Belgrado nel quale rimasero vittime 57 persone, in gran parte parenti dello stesso Jashari. Tuttavia, al tempo stesso appare assolutamente ridicola la giustificazione offerta in conferenza stampa dal giocatore e cioè che si trattava di un omaggio nei confronti dell’ultimo arrivato nella famiglia rossocrociata, quell’Ardon Jashari che lui ha preso sotto la sua ala protettrice. E se anche così fosse, Xhaka avrebbe dovuto essere furbo a sufficienza da capire che l’ostentata esibizione di quella maglia davanti al pubblico serbo sarebbe sembrata una pura provocazione, in stile aquilotti, ma meglio pianificata. E siccome nessuno lo ritiene stupido...
Davanti al mondo intero, l’Asf difenderà e giustificherà il suo capitano. Nelle segrete stanze del ritiro rossocrociato, però, sarebbe bene far capire a Xhaka, una volta per tutte, che l’essere capitano e giocatore imprescindibile per questa Nazionale non lo legittima a qualsiasi tipo di comportamento. Venerdì ha rischiato l’espulsione, che sarebbe andata a detrimento di compagni, staff tecnico, federazione e tifosi in vista della sfida con il Portogallo. Senza dimenticare che certi comportamenti – dei quali non si occupa soltanto la stampa svizzera, albanese e serba, ma anche quella del mondo intero – gettano in cattiva luce l’immagine del calcio rossocrociato.
Tra l’altro, in un Mondiale che più corretto di così si muore. La sfida più rusticana è stata proprio quella tra Svizzera e Serbia, per quanto, senza le provocazioni di Xhaka, non avrebbe dato adito al benché minimo problema di gestione per l’arbitro argentino Fernando Rampallini. Addirittura, la sfida più politicizzata dell’intero Mondiale, quella tra Iran e Stati Uniti, si è svolta nei canoni del più signorile fairplay. D’altra parte, nell’intera fase a gironi sono stati soltanto tre i cartellini rossi, esattamente lo stesso numero di quattro anni fa: il primo al portiere del Galles Hennessey per un fallo fuori area, il secondo al selezionatore della Corea, Paulo Bento, per proteste, il terzo al camerunese Aboubakar per doppio giallo dopo essersi tolto la maglia a seguito del gol della storica vittoria contro il Brasile. A termine di paragone, nel 2006 in Germania, sempre nella fase a gironi, erano stati espulsi 16 giocatori, nel 2010 in Sudafrica erano scesi a 13 e nel 2014 in Brasile non avevano superato quota 9. La diminuzione dall’introduzione del Var nel 2018 è davvero sorprendente, anche rispetto all’edizione in Sudamerica (il 66% in meno). Vien da pensare che la decisione di legittimare l’utilizzo delle immagini televisive sia servita non soltanto per quanto attiene alle situazioni da gol, ma anche per far capire ai giocatori che tutto quanto avviene in campo è meticolosamente scrutato dal Grande Fratello Var, ragion per cui ogni gesto sconsiderato, pur se sfuggito al fallibile occhio umano dell’arbitro, non passa inosservato a quello della tecnologia e può dunque avere ripercussioni importanti, come un cartellino rosso o, addirittura, una squalifica a posteriori. E quest’ultima ipotesi deve aver fatto gelare il sangue nelle vene a tutta la delegazione svizzera quando ha visto il suo capitano festeggiare la vittoria indossando una maglietta dal chiaro connotato politico.