Lo sapevamo tutti che per il ragazzo dalle origini kosovare quella contro la Serbia non è mai una partita qualsiasi
Che porti la maglia numero 10 oppure la 26, Xhaka è uno solo. Piedi, testa e cuore. L’anima della squadra. Qualcuno, seduto al calduccio in uno studio televisivo a Comano, gli rimprovera i gestacci durante la partita della Svizzera contro la Serbia (mano attaccata ai genitali di fronte alla panchina rivale, come Vlahovic prima di lui), gli insulti (pronunciati, dopo quelli ricevuti), la provocazione di aver indossato a fine partita la maglietta del compagno Jashari, omonimo di Adem uno dei fondatori dell’Esercito di liberazione del Kosovo. Dalle colonne del Mattino addirittura si alza l’asticella e si chiede alla Federazione di togliergli la fascia da capitano, dopo una partita "che si è trasformata in un ring politico".
Reazioni politiche in effetti ci sono state, nei Balcani. Il premier kosovaro Albin Kurti si è congratulato con la Svizzera, e sulle strade della capitale Pristina tante persone sono scese in piazza a festeggiare come se a vincere fosse stata la neonata nazionale del Kosovo. Dal canto suo il governo di Belgrado ha stigmatizzato il comportamento del capitano elvetico.
In verità, lo sapevamo tutti, per il ragazzo dalle origini kosovare quella contro la Serbia non è mai una partita qualsiasi: identificato con la causa dell’indipendenza, figlio di un attivista politico, Granit aveva già fatto capire quattro anni fa, con le famose aquile ai Mondiali in Russia, cosa gli suscita la sfida contro gli uomini di Belgrado. Cosa pretendevamo? Che il ragazzo conducesse la Svizzera verso gli ottavi di finale, senza però farci fare una "brutta figura". Un po’ ipocriti siamo.
Torniamo per un attimo alla partita di venerdì sera. Granit Xhaka è ovunque, dal primo all’ultimo minuto: quando i serbi si portano sul 2-1, è lui ad alzare il baricentro della squadra. Così arriverà l’importantissimo pareggio di Embolo prima di andare negli spogliatoi. E così giungerà pure il gol di Freuler, a inizio ripresa. Da lì in poi quella del capitano della Nazionale diventa una prestazione superlativa. Grazie al suo granitico capitano, la Svizzera non verrà mai messa veramente in difficoltà dalla tosta squadra serba. Xhaka si fa trovare sempre al posto giusto: per contenere l’avanzata dei serbi, per impostare le ripartenze rossocrociate, per dare indicazioni ai compagni, per attirare su di sé la rabbia degli avversari e portarli, sul piano psicologico, fuori dalla partita.
E poi l’esultanza finale, con addosso la maglietta del compagno Jashari, un gesto provocatorio ma pure studiato: "Niente di politico – dirà Granit nella conferenza stampa post partita –, semplicemente un modo di rendere partecipe il giovane Ardon, un ragazzo che mi sta molto a cuore". Quindi no, Xhaka non ha perso la testa. È vero: ha reagito in modo incomprensibile per molti, sicuramente condizionato dalla dignità ferita del suo popolo, quello kosovaro, che ancora oggi lotta per vedere riconosciuta la propria indipendenza dalla Serbia. Dunque, una tensione extra sportiva che gli ha permesso di interpretare la gara con quella carica emotiva addizionale – discutibile, per carità – che in un Mondiale sa essere determinante. Alcuni anni fa il ticinese Valon Behrami, pure lui di origine kosovara, aveva dichiarato che con il calcio cercava "di ridare alla Svizzera qualcosa di tutto quello che il Paese ha fatto per me e per la mia famiglia". Xhaka, a modo suo, fa esattamente la stessa cosa.