A 34 anni la ticinese sta per vivere la quinta Olimpiade, come Ambühl tra gli uomini. ‘L’emozione? È anche più grande, dopo il nervosismo legato al Covid’
Chissà cos’avrà pensato Nicole Bullo, venerdì pomeriggio, poco dopo le 18, quando ha messo piede su quel volo che dall’aeroporto di Zurigo-Kloten l’avrebbe portata fino a Pechino. Dove dopodomani, sul mezzogiorno (le 5 del mattino in Svizzera), la trentaquattrenne cresciuta a Claro che ora vive a Bedano, una delle due sole ticinesi che fanno parte della selezione rossocrociata assieme alla ventunenne Nicole Vallario, inaugurerà la sua quinta Olimpiade di fronte a un Canada che nel panorama hockeistico femminile praticamente non ha rivali. Aggiungendo al suo palmarès anche un quinto cerchio, diventando così la risposta femminile al grigionese Andres Ambühl, icona nazionale al maschile.
Se è vero che nella storia dello sport c’è persino chi di edizioni dei Giochi ne ha disputate dieci – tale Ian Millar, canadese che ci andò una prima volta nel 1972 e l’ultima nel 2012, ma in uno sport come l’ippica in cui sostanzialmente l’età non conta –, riuscire a rimanere ai vertici per ben sedici anni in una disciplina fisicamente sfibrante come l’hockey, in cui i lividi sono la cosa migliore che ti possa capitare, non è cosa da tutti. «L’emozione? È grande, indubbiamente» esordisce la ragazza diventata uno pilasto del Lugano Ladies team, che alle Olimpiadi mise per la prima volta piede sul ghiaccio a Torino 2006, prima di partecipare alle edizioni di Vancouver 2010, Sochi 2014 (quella in cui la Svizzera si mise al collo una straordinaria medaglia di bronzo) e Pyeongchang 2018. «Forse, però, direi che l’emozione è anche più grande stavolta, vista la situazione dovuta al Covid, dopo qualche giorno di nervosismo legato all’esito dei test. Infatti i cinesi, ma lo capisco benissimo, sono davvero molto severi nel mettere in pratica i protocolli di sicurezza».
Ciò che due tue compagne, cioè Alina Müller e Sinja Leemann, hanno vissuto sulla loro pelle, tanto da dover rinviare il volo a causa di anomalie negli ultimi test Covid prima di partire. «Sì, ci hanno controllate a più riprese, e non penso soltanto ai test antigenici e ai Pcr a scadenze regolari, ma pure a tutta un’altra serie di parametri. Proprio quelli in cui Alina e Sinja hanno presentato dei valori un pochettino bassi, e per evitare che potessero avere problemi al loro ingresso in Cina, d’accordo con la Federazione e Swiss Olympic hanno preferito posticipare la loro partenza di qualche giorno».
Come la Nazionale maschile, che debutterà più tardi nel calendario olimpico (sarà proprio lei a inaugurarlo, del resto, il 9 febbraio contro i campioni in carica della Russia), prima di decollare per Pechino vi siete preparate all’Oym College di Cham, alla periferia di Zugo. «Ci eravamo radunate lì sabato scorso, ma prima di quel ritiro avevamo già potuto svolgere un paio di allenamenti tutte assieme».
La prima volta, a Torino 2006, avevi appena diciotto anni. Sedici anni dopo, che ricordi hai di quell’avventura? «Devo essere sincera? Naturalmente dei ricordi ci sono, ma se penso all’aspetto sportivo d’indelebile nella mia mente c’è soprattutto ciò che è successo dopo, visto che livello internazionale la Svizzera è diventata davvero competitiva con il passare degli anni. All’inizio invece ci dicevamo che era un onore essere lì, e ci godevamo il momento. Adesso però gli obiettivi a livello di squadra sono ben diversi, infatti partiamo con l’idea di provare ad arrivare sul podio. L’obiettivo è arrivare almeno ai quarti di finale, per poi provare a giocarci la medaglia».
E nessuno più di te ha potuto essere testimone di questa crescita del nostro hockey al femminile su scala mondiale. «Diciamo che quel bronzo del 2012 (ai Mondiali femminili a Burlington, nel Vermont, ndr) ci ha fatto sognare, oltre che lavorare di più. In effetti la Federazione ha cominciato a spingere: ho potuto vivere in prima persona quest’evoluzione, e davvero posso dire che ci sostiene, e che crede i noi».
Ma dopo quel bronzo storico ai Giochi in Russia... «Sì, è vero, nel 2018 in Corea c’è stata la grande delusione per come siamo uscite ai quarti, ma non dobbiamo dimenticare che nello sport non si può sempre vincere. Del resto, anche le nostre avversarie stanno lavorando duramente da tanti anni».
Il lavoro, però, non è tutto. Conta anche l’esperienza, e tu ne hai da vendere: quanto nello spogliatoio il tuo esempio può essere importante? «Indubbiamente aiuta il fatto di essere ormai ai miei quinti Giochi. Tuttavia non sono l’unica ad aver già vissuto l’esperienza olimpica: tante altre ragazze sanno bene cosa significa, penso a Evelina Raselli, Lara Stalder, Sarah Forster... Insomma, c’è parecchia gente che ha già giocato a questi livelli, e le ragazze più inesperte sanno di poter contare sul nostro aiuto».
Non è la prima volta che nella tua carriera di hockeista vieni confrontata con una crisi legata a un coronavirus: nel 2003, infatti, ti toccò mettere una croce sul Mondiale in Cina, colpita all’epoca dall’epidemia di Sars. «Già, infatti alla fine il torneo lo annullarono, anche se quando lo decisero noi eravamo già a Pechino, quindi ne approfittammo per fare un po’ di turismo (sorride, ndr). Questa pandemia, però, è tutta un’altra cosa, ed è in grado di cambiare le carte in tavola. La Svezia, ad esempio, è stata costretta a lasciare a casa all’ultimo quattro titolari positive al virus. Oggi si vive davvero alla giornata, bisogna dare prova di molta pazienza e cercare di prendere le cose come vengono. Per il resto possiamo soltanto seguire i protocolli, e anche da noi ci sono regole interne che rispettiamo per minimizzare i contatti quando non siamo sul ghiaccio. Speriamo che basti per arrivare in fondo».
A differenza di ciò che capita al maschile, dove la Nhl ha deciso di fare l’impasse sui Giochi proprio a causa della pandemia, il vostro torneo vedrà scendere in pista il meglio del meglio a livello planetario. «Sì, noi siamo al gran completo, con tutte le ragazze che sono rientrate da Nordamerica e Svezia. Nell’hockey femminile nessuna Lega ha deciso di mettere delle limitazioni, e da quanto so le ragazze di Stati Uniti e Canada sono in ritiro già da un bel po’ di tempo».
La tua di preparazione, invece, è stata a dir poco travagliata, a causa di problemi di salute che ti hanno costretto a saltare i Mondiali 2021, recuperati a Calgary a fine estate dopo che erano stati cancellati in primavera ad Halifax. «Ho dovuto rinunciarvi, andarci non avrebbe avuto senso: infatti, oltre a essere stata colpita dal Covid in primavera ho dovuto anche fare i conti con una mononucleosi, e ci sono voluti mesi affinché il mio corpo riuscisse a riprendersi dalle due infezioni. Tanto che soltanto a fine novembre, inizio dicembre ho cominciato a sentirmi infine nel pieno della mia forma fisica».
A 34 anni, poi, riuscire a recuperare non è tanto facile come potrebbe esserlo a venti. «Infatti, ora devo ascoltare ciò che dice il mio corpo. Si sa, che la mononucleosi può lasciare strascichi fino a un anno più tardi, quindi ogni tanto la fatica torna a farsi sentire. Però – conclude – non è un problema. Ho imparato a capirmi, è importante anche sapersi gestire: so che arrivano determinati momenti in cui il mio corpo mi chiede di frenare e quindi un po’ freno, poi il giorno so che potrò spingere un po’ di più».