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‘Questo stadio mancherà a tutti’

Un giornalista e un ex giocatore (pure nei panni dell'avversario) sfogliano l'ultima pagina dell'album

La caratteristica volta dello stadio (Ti-Press)

Un giornalista e un ex giocatore (pure nei panni dell'avversario) sfogliano l'ultima pagina dell'album

10 aprile 2021
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Piergiorgio Giambonini è una ‘vecchia conoscenza’ della Valascia. Prima, per ben 35 anni, in qualità di apprezzata penna per la carta stampata, e poi in qualità di cronista sportivo per conto della Rsi. In tutti questi anni, di ricordi legati allo stadio ne ha collezionati (e raccontati) a bizzeffe. Ma qual è quello più significativo? «Al di là, ovviamente, della serie di derby della finale del 1999, ricordo con particolare emozione tutta quella stagione. E, prima di quella, anche la precedente. Perché è in quegli anni che ho vissuto e raccontato dell’Ambrì più competitivo visto da giornalista. Una squadra d’alta classifica, con giustificate ambizioni al rialzo. Di conseguenza in quegli anni alla Valascia era venuto a crearsi un ambiente impressionante, un ambiente unico al mondo, prima, durante e dopo le partite. L’euforia era totale, le prestazioni della squadra altrettanto esaltanti, e tutt’attorno c’era una cornice di pubblico straripante. A mio modo di vedere quello è stato l’Ambrì più forte di sempre. In un contesto così, anche per noi giornalisti andare alla Valascia era qualcosa di impressionante nonché estremamente motivante. Ad ogni modo, tralasciando i derby (ce ne sono stati talmente tanti in questi anni che individuarne uno in particolare sarebbe un esercizio piuttosto difficile), tra le partite che hanno ‘fatto epoca’ citerei poi quelle dei primi Anni Novanta contro il Friborgo dei vari Bykov e Khomutov. In quegli anni l’Ambrì è arrivato vicino, anzi vicinissimo, alla finale». Senza dimenticare la Supercoppa europea del 1999 (a cui vanno aggiunte le due Continental Cup, una vinta a Kosice e l’altra a Berlino). «Grazie alla ribalta continentale, l’Ambrì ha conosciuto l’Europa, e al tempo stesso l’Europa ha scoperto la Valascia. La conquista della Supercoppa, vinta a spese dei russi del Metallurg Magnitogorsk, se si vuole, ha permesso di digerire almeno in parte la delusione per la finale persa appena qualche mese prima contro il Lugano».

‘Grazie alla ribalta continentale, l'Ambrì ha conosciuto l'Europa, e al tempo stesso l'Europa ha scoperto la Valascia’

E, professionalmente parlando, come è stato lavorare alla Valascia? «È stata una sfida. Lo era già quando ho iniziato a frequentarla professionalmente per le prime volte, a inizio Anni Settanta, e negli anni le condizioni di lavoro non sono cambiate di molto. Già arrivare in tribuna stampa era una sorta di percorso a ostacoli, col rischio sempre in agguato di pestare qualche testata contro una trave o un traliccio, per poi doversi quasi inginocchiare per raggiungere la postazione. E poi, una volta istallato, dovevi mettere in conto una temperatura decisamente rigida, oltre che l’assenza di servizi igienici vicino al posto di lavoro. Insomma, per il comfort, erano condizioni quasi al limite, se non oltre… Per fortuna con gli anni hanno creato una sala stampa, dove almeno ci si poteva rifugiare per scrivere nelle sere in cui la colonnina di mercurio raggiungeva minimi al limite dell’assurdo: scrivere e pensare a -15 gradi non è certo evidente, anzi. E non è che passando dalla carta stampata alla televisione le cose siano migliorate granché: anche le postazioni dei commentatori televisivi, di fronte alla tribuna stampa, erano in condizioni pressoché analoghe. Anche lì l’ultima scaletta che dovevi affrontare mi ricordava quella del solaio della nonna: per salirla ci volevano quasi anche doti da contorsionista. Allora come oggi. Questo per dire che sì, andare alla Valascia era una sfida, ma anche per questo sempre qualcosa di particolare, di speciale».

Che effetto ti farà andare a commentare una partita dell’Ambrì non più alla Valascia, ma nella nuova casa dei biancoblù? «La Valascia bene o male mancherà a tutti. Ai giocatori, ai tifosi, e anche a noi giornalisti. Nella nuova struttura sarà un po’ come andare in un qualsiasi altro stadio di media grandezza; mancherà in tutto e per tutto quello che ha reso particolare la Valascia; quello è insostituibile. D’altro canto bisogna essere realisti: la Valascia era arrivata al suo capolinea come struttura già da una buona quindicina di anni. Spostarsi in un nuovo stadio è traumatico per tutti, ma è anche inevitabile, e per mille motivi. Del resto anche i dirigenti del club hanno fatto tutto il possibile e quasi pure l’impossibile per evitare questo trasloco. Ma alla fine si sono dovuti pure loro arrendere di fronte all’impossibilità di fare altrimenti. Questa storia mi riporta alla mente quella del Friborgo di fine Anni Settanta, ai tempi della mitica Patinoire des Augustins, una pista d’altri tempi, simile alla Valascia per condizioni climatiche e per la bolgia che c’era. Anche lì, complice la vetustà dell’impianto, si era deciso per il trasloco della squadra all’entrata della città. Pure in quel caso i tifosi del Gottéron lo vissero come un trauma, ma poi, volenti o nolenti, finirono per accettarlo. E così si dovrà fare ad Ambrì: non si poteva fare altrimenti, e adesso bisogna guardare avanti, tenendosi comunque ben stretti i ricordi legati alla Valascia. Del resto è questo il prezzo da pagare per andare verso il futuro». C’è il rischio che con il nuovo stadio, più funzionale, l’Ambrì perda un po’ del suo fascino di squadra di montagna? «No, quello non lo penso. L’Ambrì è e resterà una realtà di montagna e ‘fuori porta’. Questo non cambierà. Di certo sarà dura far assimilare il cambiamento a tutti i tifosi, specie quelli più nostalgici; per poterci riuscire avrà anche bisogno dei risultati, più che mai».

Krister Cantoni

‘Dalla Sud ci piovevano addosso fiumi di birra’

Se la ricorda bene la Valascia Krister Cantoni. Da entrambi... i lati, per averci giocato tanto con la maglia dell'Ambrì Piotta quanto nei panni dell'avversario. «Beh, la Valascia ha rappresentato un punto fondamentale nella mia carriera di giocatore. Perché, in fondo, è lì che ho potuto lanciarla a tutti gli effetti. Ad Ambrì ci sono arrivato quando avevo 23 anni, reduce da qualche saltuaria presenza in prima squadra a Lugano e da una stagione con lo Chaux-de-Fonds. È stata un po’ una sfida, per capire se potevo ritagliarmi un posto da titolare nel massimo campionato in un Ambrì che a quei tempi veleggiava nelle parti alte della classifica». Una sfida che l’oggi 47enne allenatore degli U17 Elite bianconeri ha vinto, visto che per quella stagione e per le successive quattro indossò la maglia dell’Ambrì Piotta, per poi accasarsi a Lugano nel 2002, dove chiuse la carriera professionistica al termine della stagione 2008/09.

Cosa ricordi dell’ambiente che c’era alla Valascia? «Era qualcosa di unico. Quando giocavo con l’Ambrì, il nostro spogliatoio era di fianco alla Curva Sud, dalla quale era separato da una finestra che, se non ricordo male, aveva un semplice vetro, nemmeno doppio. Di conseguenza il frastuono del pubblico sugli spalti lo sentivi come se fosse stato lì nello spogliatoio con te. Qualcosa di totalmente inimmaginabile altrove, come a Berna, dove i giocatori si cambiano nelle viscere dello stadio, in locali dalle spesse pareti in cemento armato… Una situazione che presentava le due facce della medaglia, visto che quel bailamme lo avvertivi pericolosamente vicino anche quando le cose non andavo propriamente come volevi, e allora si alzavano le voci del malcontento. E, ovviamente, tutto quel vociare, seppur in forma minore, lo sentivi bene anche nell’altro spogliatoio, quello riservato agli ospiti. Ecco, se a Berna a colpirti era la muraglia umana che ti trovavi di fronte quando entravi in pista, alla Valascia l’emozione della partita la sentivi ancora prima di iniziare il riscaldamento, addirittura mentre ti cambiavi».

Come è stato tornare alla Valascia dopo la tua parentesi in biancoblù, nei panni di avversario? «Avendoci passato cinque stagioni, bene o male l’ho sempre sentita un po’ come una pista amica. Ci sono quelle piste che per un giocatore rappresentano una sorta di portafortuna, quelle in cui tutto ti riesce (quasi sempre) un po’ più facile, in cui ti senti particolarmente a tuo agio. La Valascia per me era una di quelle, sebbene poi, come ospite, indosso avessi la maglia del Lugano».

Qual è il ricordo più bello che ti lega alla pista? «Ne ho parecchi, come le serie di playoff vinte con la maglia biancoblù in quegli anni. Se devo sceglierne uno, direi un mio gol a Renato Tosio, indimenticabile saracinesca del Berna». E da avversario? «Ogni volta che con il Lugano riuscivamo a espugnare la pista era sicuramente una bella soddisfazione. Ricordo anche però che una volta mi sono rotto una falange di un dito su una staffilata di Domenichelli… Come non posso dimenticare gli immancabili sfottò dei tifosi sulla linea blu: ogni tanto, nel sentire qualche commento del pubblico sul rettilineo, ti scappava anche da ridere. O, ancora, i fiumi di birra che ci piovevano addosso dalla Curva Sud subito dopo un nostro gol: la maglia era talmente inzuppata che, strizzandola, alla fine ci potevi ricavare un paio di bicchieri per te».

‘Se il club vuole guardare al futuro con altre ambizioni, il nuovo impianto era qualcosa di imprescindibile’

Finita la carriera di giocatore, Cantoni la Valascia ha continuato a frequentarla in qualità appunto di allenatore del settore giovanile bianconero. Ti mancherà ora che non c'è più? «Era sicuramente una pista speciale, unica. Ma occorre essere anche onesti: così com’era, aveva fatto il suo tempo: era da anni che l’Ambrì continuava a giocare in uno stadio che aveva raggiunto tutti i suoi limiti strutturali… Era giusto che si andasse oltre, e lo dico pensando anche alla società: per puntare a un futuro con altre ambizioni, la costruzione di una nuova pista era qualcosa di imprescindibile. Non da ultimo, con il nuovo impianto il club guadagnerà sicuramente parecchio in attrattività per i giocatori in cerca di una sistemazione. Anche se è logico che il cambio di ‘casa’, sarà strano per tutti gli ‘aficionados’ di una certa età».