Matteo Badilatti ha vissuto da vicino gli incidenti al Giro dei Paesi Baschi: ‘Noi corridori siamo i primi a poter influenzare un cambiamento’
Sono state settimane difficili, le ultime vissute dal plotone del ciclismo. Settimane caratterizzate da cadute a raffica e ritiri come se piovesse, sulle strade del Nord, così come su quelle spagnole. Vingegaard, Roglic, Landa, Vine, Evenepoel, Van Aert, Stuyven sono rimasti vittime di incidenti in corsa e rischiano di dover mettere mano in modo pesante ai loro calendari stagionali. Per Van Aert, ad esempio, la presenza al Giro d’Italia è appesa a un filo, così come quella di Vingegaard al Tour de France. E, anche se per miracolo dovessero farcela, resta da capire in quali condizioni di forma potrebbero presentarsi al via. Quindici giorni neri che hanno riacceso il dibattito sulla sicurezza nelle corse ciclistiche. Perché a dieci mesi dalla morte di Gino Mäder durante il Tour de Suisse, stavolta non si è arrivati all’irreparabile, ma soprattutto al Giro dei Paesi Baschi ci si è andati molto vicino.
Ne abbiamo parlato con Matteo Badilatti, poschiavino della Q36.5, in gara sulle strade basche… «Leggevo ieri un articolo secondo il quale sono oltre 50 i corridori del World Tour attualmente fermi per infortunio. Purtroppo, da un paio di anni la dinamica in gruppo ha subìto un cambiamento che in questa stagione è andato ulteriormente accentuandosi. A livello di materiali c’è stato un sensibile passo avanti, tutto è diventato più veloce, più competitivo: i freni a disco, l’aerodinamica estrema delle biciclette, la possibilità di avere una pressione minore nei tubolari sono tutti aspetti che permettono di aumentare la velocità. Inoltre, il modo di correre è diventato più aggressivo, occorre limare di più, rimanere davanti a ogni costo, in particolare per gli uomini di classifica. Tutti questi fattori comportano un aumento dello stress all’interno del plotone, con le conseguenze che tutti, in questi giorni, abbiamo visto. Fino a ora, i ciclisti hanno sempre corso con una certa dose di fatalismo, nonostante siano già successi incidenti molto gravi, convinti che non sarebbe mai toccato a loro. Tuttavia, quelli delle ultime settimane sono campanelli d’allarme che vanno recepiti. Siamo professionisti, siamo consci della pericolosità insita nel nostro mestiere, ma a volte occorrerebbe valutare maggiormente la situazione ed evitare di correre rischi inutili».
In molti casi, la prevenzione può essere portata avanti soltanto dal buonsenso degli stessi ciclisti, perché è impensabile mettere in sicurezza centinaia di chilometri di strade… «A volte gli organizzatori vengono criticati per la scelta di farci attraversare centri abitati su strade brutte e tecniche. Sinceramente, non sono della stessa opinione, in quanto quelle sono condizioni nelle quali il plotone è all’erta, pronto a captare i pericoli e a reagire di conseguenza. Le principali cadute avvengono su strade larghe, con velocità molto elevate e tanto stress dovuto al desiderio collettivo di rimanere nelle prime posizioni del gruppo. Una situazione che porta spesso a sottovalutare alcune dinamiche, poi alla base di cadute anche rovinose. Nel caso specifico del Paesi Baschi, agli organizzatori non ho proprio nulla da rimproverare, perché la corsa si svolge come noi la impostiamo. L’ammiraglia può avvisarti dell’arrivo di una curva pericolosa, ma se ogni volta trovi un collega che accelera per cercare di rimanere davanti e così facendo costringe il plotone ad aumentare la velocità, la responsabilità non è di chi ha disegnato il percorso. Al giorno d’oggi, grazie ad applicazioni come VeloViewer è possibile studiare i tracciati e capire dove si nascondono i trabocchetti, per cui in gara siamo ben informati. Tuttavia, il problema sta nel fatto che quelli, proprio perché riconosciuti come passaggi insidiosi, non causano praticamente mai incidenti: le cadute avvengono quando meno te lo aspetti, quando ci si sente troppo sicuri e si abbassa il livello di guardia. E in questi casi, a mio modo di vedere, la responsabilità è dei corridori. Torniamo alla caduta al Paesi Baschi: qualche centinaio di metri prima della curva incriminata, l’asfalto presentava delle irregolarità, dovute a infiltrazioni di radici sotto il manto stradale: io me ne sono reso conto e ho rallentato, in modo da entrare in curva senza rischiare. Probabilmente, chi stava davanti non ha decelerato, con le conseguenze che sappiamo. Gli organizzatori avrebbero dovuto allestire delle protezioni? Non credo, perché se quello fosse il metro di giudizio, in ogni tappa occorrerebbe intervenire in molti punti del percorso».
Rispetto a qualche decennio fa, sempre più ciclisti cercano di rimanere nelle prime posizioni del gruppo, nonostante la larghezza delle strade sia sempre la stessa… «Lo posso capire nei finali di gara o nei momenti decisivi, così come capisco la pressione esercitata dai direttori sportivi. Tuttavia, a volte sarebbe meglio chiedersi se il santo vale davvero la candela, perché in determinate circostanze può essere pericoloso mettere troppa pressione e rischiare di rovinare i piani di un’intera stagione. Le assenze di Van Aert al Giro e di Vingegaard a Tour, per la Visma rappresenterebbe un colpo durissimo da digerire».
Quando si vivono in prima persona cadute rovinose come quelle del Paesi Baschi, non deve essere facile tornare subito in sella… «Sono situazioni difficili da metabolizzare, arrivi sul luogo dell’incidente e vedi tutti i colleghi sull’asfalto, poi la tappa viene neutralizzata e allora cerchi di informarti, perché dopo quanto successo dieci mesi fa il pensiero corre sempre lì. E sai che il giorno dopo, comunque vada, dovrai tornare a pedalare. Sono eventi che ti segnano e non te li togli dalla mente con un semplice colpo di spugna. Personalmente, tante volte in corsa rifletto troppo e questo mi limita e mi impedisce di limare come dovrei. Ma se valuto il rischio troppo elevato rispetto alla situazione di corsa preferiscono non andare oltre i miei limiti».
Matteo Badilatti, 31 anni, è alla sua seconda stagione con la Q36.5… «Purtroppo l’ultima tappa del Paesi Baschi non l’ho conclusa, a causa del problema che in primavera mi rende spesso difficile la vita: l’allergia ai pollini. Nelle prime frazioni ero riuscito a tenerla a bada, ma sabato, con salite più lunghe e impegnative, proprio non ce l'ho fatta. Anche perché sono arrivato in Spagna con una condizione deficitaria, a causa di uno stato influenzale contratto alla Settimana Coppi e Bartali che mi ha costretto a letto per qualche giorno. Certo, ci sono medicamenti consentiti per combattere l’allergia, ma hanno lo sgradito effetto collaterale di aumentare quel senso di fatica e di spossatezza che ti taglia le gambe».
Il programma dei prossimi mesi rimane da definire… «Per la squadra, le prossime corse a tappe saranno il Tour de Romandie, il Tour de Suisse e il Delfinato. In via del tutto teorica, dovrei prendere parte al Romandia per poi essere al meglio della condizione al TdS. Nei prossimi giorni andrà monitorato il mio stato fisico, come avrò recuperato dal Paesi Baschi, come evolverà l’allergia e quanto mi potrò allenare per arrivare in forma discreta al Romandia. Nella peggiore delle ipotesi, potrei ritardare di qualche giorno il mio rientro e prepararmi al Tour de Suisse attraverso altre competizioni».