Con Federico Buffa, affabulatore senza eguali che prossimamente si esibirà anche a Lugano, ripercorriamo la storia e l’importanza del calcio rioplatense
«La tournée ha fatto una decina di date la scorsa estate in Italia, specie nell’ambito di festival culturali», esordisce Federico Buffa, impareggiabile narratore di biografie sportive che si esibirà al Palazzo dei congressi di Lugano mercoledì 14 febbraio col suo spettacolo ‘La milonga del fútbol’, basato sulle vicende di tre campioni argentini – Renato Cesarini, Omar Enrique Sivori e Diego Armando Maradona – e sui legami che fra loro esistono.
«Tranne in un caso», riprende a raccontare riferendosi alla pièce, «siamo sempre stati all’aperto. Il luogo più evocativo è stato Nora, città fenicia della Sardegna, in un antico teatro romano, immersi in un ambiente davvero sorprendente, col sole che tramontava e il mare alle spalle. Qualcosa che non avevo mai vissuto nella mia vita professionale, e che con ogni probabilità non mi capiterà più di rifare. Belle serate sono state pure quelle di Verona e Fiesole, anche lì nei loro teatri romani, molto suggestivi. Poi abbiamo fatto qualche data anche in autunno in varie città – anche lì con una buona risposta del pubblico – e ora riprendiamo proprio da Lugano, la prima di un’altra ventina di date».
Come ti è venuta l’idea di parlare del calcio rioplatense?
Io volevo in realtà concentrarmi soprattutto sul Novecento argentino, e mi serviva un pretesto per poterne parlare. La storia di un Paese come l’Argentina è praticamente tutta racchiusa in quel secolo. Laggiù nel ventesimo secolo è successa ogni cosa, tranne le guerre mondiali. Gli argentini hanno cercato di ‘iscriversi’ alla Seconda, ma era già troppo tardi. Per me è evidente che l’organizzazione del Mondiale del 1950 non sia stata assegnata all’Argentina solo perché non ha preso parte alla Guerra, e che fu assegnata al Brasile proprio perché i brasiliani avevano invece fatto in tempo a entrare in guerra. E lo fecero ovviamente da nemici degli italiani, che erano alleati di tedeschi e giapponesi: è per questo motivo che, proprio in quegli anni, un club come il Palestra Italia ha cambiato nome ed è diventato il celebre Palmeiras.
Cosa significa l’Agentina per il calcio mondiale?
Il suo contributo alla storia del calcio mondiale è stato fondamentale. Innanzitutto, ogni vent’anni circa, proprio laggiù nasce il miglior giocatore del pianeta: pensiamo ad esempio ad Alfredo Di Stefano, a Maradona e a Lionel Messi, un terzetto niente male, direi.
A Buenos Aires, ma non solo, il gioco del calcio riesce a trascendere il suo ristretto ambito, divenendo davvero parte integrante della vita...
Gli inglesi, è innegabile, hanno inventato il calcio, ma sul Rio de la Plata è nato l’amore per il gioco. E pure la vera passione, ancor più dell’amore. Non è un caso se, già negli anni Trenta, laggiù sono comparse le curve negli stadi, intese come tifo organizzato ed esasperato. E infatti anche il filo spinato attorno al campo è comparso per la prima volta proprio in Argentina, Paese dove fu registrato anche il primo morto per fútbol e dove il pubblico non si comportava certo in modo compassato come succedeva in Europa. Era tutta una maniera diversa di stare al mondo – parlando di calcio – e un modello che poi, col passare dei decenni, si è imposto ovunque. Il modo di pensare al calcio degli argentini già all’inizio del Novecento è poi diventato il modo con cui, nei decenni successivi, tutto il mondo ha guardato il calcio.
Perché hai voluto concentrarti proprio su Cesarini, Sivori e Maradona?
Perché sono strettamente collegati fra loro. Cesarini era nato in Italia, vicino a Senigallia – dove oggi c’è una statua a lui dedicata – ma ancora in fasce emigrò in Argentina insieme ai genitori. E lo stesso Cesarini fu lo scopritore di Omar Sivori, fuoriclasse che poi andò a giocare nella Juventus proprio dietro suo suggerimento. Sivori, invece, fu a sua volta colui che consolerà Maradona quando il Pibe venne escluso con le ultime scremature dalla Nazionale argentina che avrebbe giocato e vinto il Mondiale casalingo disputato nel 1978. Per trattare in maniera originale la clamorosa esclusione di Diego da parte del selezionatore – che all’epoca era il Flaco Menotti – i redattori di El Grafico, la Bibbia sportiva argentina, decisero di far intervistare Maradona proprio da Omar Sivori, cioè il campione del passato che più di ogni altro, per caratteristiche, poteva essere accostato al giovane fenomeno emergente: entrambi mancini, entrambi col 10 sulle spalle. Fu un’intervista che passò alla storia, e che io fra l’altro ho letto varie volte, in cui Sivori diede a Diego alcune istruzioni di esistenza che al ragazzo resteranno dentro per sempre. Inoltre tutti e tre – Cesarini, Sivori e Maradona – sono italiani di origine, benché Maradona lo sia soltanto da parte di madre.
Pensando al Cesarini calciatore, oggi lo si ricorda soltanto per la famosa Zona Cesarini, che prese il suo nome per l’abitudine che aveva Renato di segnare gol negli ultimi minuti delle partite. Fuori dal campo, invece, si parla di lui soltanto come viveur impenitente, spendaccione e frequentatore assiduo di night club. In realtà però lui è stato un grande professionista e più tardi, da tecnico, ha perfino diretto la Màquina del River, cioè la leggendaria squadra dall’attacco stellare in cui giocavano calciatori del calibro di Labruna, Pedernera, Loustau...
Sì, agli italiani sfugge spesso un piccolo particolare: la più grande squadra offensiva della storia del calcio non solo è stata allenata da Renato Cesarini, ma lui l’ha addirittura creata, plasmata. Dopo aver vinto cinque scudetti in Italia vestendo la maglia della Juventus e aver abbandonato il Paese perché, come tutti gli oriundi, rischiava di essere arruolato e spedito al fronte, Cesarini giocò due ulteriori stagioni col River Plate conquistando altri due campionati. Dopodiché si ritirò, e cominciò appunto ad allenare il River stesso, formato all’epoca da ragazzi che promettevano davvero bene. Il suo lavoro di allestimento della Màquina meriterebbe da solo uno spettacolo. Lui, alla guida di quel gruppo, ha ribaltato un concetto classico: non è il talento che deve mettersi al servizio della squadra, bensì il contrario. Purtroppo oggi quasi non esistono filmati di quella squadra, ma è assodato che nessuno abbia mai giocato così bene in attacco nell’intera storia del calcio.
Per Messi non c’è spazio nel tuo spettacolo?
Leo non appartiene al Novecento, e senza dubbio ha una storia molto meno affascinante.
Gli argentini – ma anche gli uruguagi, mi permetto di dire – hanno un po’ salvato il football, nel senso che il gioco originale, quello inventato dai britannici, era forse già invecchiato dopo una cinquantina d’anni di vita. La creolizzazione del calcio ha salvato il gioco, sei d’accordo?
Assolutamente sì: l’idea di creare un gioco diverso da quello inventato dagli inglesi è quella che dà forma all’idea di calcio che abbiamo ancora oggi. Senza la creatività portata appunto dalla creolizzazione del gioco, oggi avremmo un calcio del tutto diverso.
Perché in Italia, ma direi in tutta l’Europa, abbiamo dovuto aspettare che arrivasse Federico Buffa per avere un certo tipo di narrazione dello sport e delle magnifiche storie che lo sport sa offrire? Perché si è dovuto far passare cent’anni per trattare lo sport con dignità letteraria, mentre ad esempio negli Stati Uniti e in altre parti del mondo registi e romanzieri si sono occupati di sport fin da subito e senza alcuna vergogna?
Gli italiani e la cultura italiana – che in parte si estende anche nella Svizzera italiana – non hanno mai considerato i calciatori e gli sportivi in generale come avrebbero meritato, e cioè alla stregua di autentici artisti. Altrove invece ciò avveniva, ed era un bene che succedesse. El Grafico, ad esempio, trattava i calciatori come fossero attori di teatro. Da noi, invece, c’è sempre stato un atteggiamento di superiorità. ‘È gente capace soltanto di tirare due calci al pallone’, dicevano. Come se calciare come si deve fosse facile: in realtà è una cosa riservata a un percentile minimo di essere umani dotati di un sistema nervoso ultraperformante. L’idea dell’atleta come artista in Italia è arrivata con enorme ritardo e ancora, lasciamelo dire, non si è sviluppata appieno. Il modo con cui da noi si è parlato di calcio, per tanti anni, non è stato certo l’ideale. Il fatto che il cinema italiano – che ha una storia di tutto rispetto – non abbia mai prodotto un singolo film serio sul calcio – che non fosse dunque parodistico – la dice lunga sul fatto che in realtà quella osmosi fra arte e sport, da noi, non si è purtroppo mai vista. Se ci fosse stata, ci sarebbe stato un approccio diverso, dal punto di vista letterario ma soprattutto cinematografico. Chi ha controllato culturalmente il Paese non ha mai considerato lo sport un veicolo culturale. Del resto, la parola sport è entrata nella Costituzione italiana per la prima volta soltanto nel 2023: mi pare un dato piuttosto eloquente.
Gli americani invece in questo esercizio sono stati bravissimi: è perché mancavano di una loro cultura classica e quindi dovevano trovare un campo in cui potersi costruire un’epica?
Proprio così. Prima di tutto, è diverso il valore sociale che viene dato allo sport nel mondo anglosassone, specie negli Stati Uniti. E poi – come diceva Borges – l’unica epica che gli statunitensi posseggono è basata su uno dei più grandi genocidi della storia dell’umanità, cioè quello dei Nativi, e quindi è meglio che non ne parlino. E così l’hanno sostituita con un’altra epica, appunto quella sportiva, che portano tranquillamente nel loro cinema, nella loro letteratura e nel loro teatro. E quella che si consuma nei campi sportivi è appunto l’epica con cui gli americani sono cresciuti e tuttora crescono come nazione.