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Stefano Cusin, dal Servette alla nazionale delle Comore

Il tecnico italiano che ha allenato un po’ ovunque nel mondo – compresi Cisgiordania e Sud Sudan – ci racconta un po’ delle sue significative esperienze

In sintesi:
  • Il coach nato in Canada, ma di origini toscane, è un autentico giramondo: ha allenato in 15 diversi Paesi
  • Fra le sue esperienze più toccanti, quelle in Africa - con gli stregoni al seguito delle squadre - e quella in Palestina
16 dicembre 2023
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Prima di esordire con tre vittorie di fila, una in amichevole e due nelle qualificazioni mondiali, il nuovo commissario tecnico delle Comore ha girato il Paese africano, un arcipelago di tre isole vulcaniche nell’Africa orientale tra il Madagascar e il Mozambico. Stefano Cusin, nato in Canada da genitori italiani ma cresciuto in Francia, ha scoperto un territorio incontaminato che esporta chiodi di garofano e vaniglia tra i migliori al mondo. Ha girato le tre isole, anche perché in ognuna si disputa un diverso campionato e aveva la necessità di capire come gira il pallone a queste latitudini. Cusin è un uomo curioso, a raccontarcelo è il suo curriculum da allenatore giramondo.

Poi è andato a Berlino a convincere Myziane Maolida, calciatore dell’Hertha, ad accettare la prima convocazione, dopo aver fatto le Under con la Francia: proprio lui è stato l’autore del gol della storica vittoria con il Ghana il 21 novembre scorso. Ora le Comore guidano il girone I a punteggio pieno. Dietro seguono Mali, Madagascar, Ghana, Repubblica Centrafricana e Ciad. Le prossime partite si disputeranno a giugno dell’anno prossimo. Perché intanto a gennaio inizia in Costa d’Avorio la Coppa d’Africa, edizione a cui le Comore non si sono qualificate.

Passione sfrenata

«C’è un entusiasmo pazzesco – racconta il mister a LaRegione mentre è in Toscana con la famiglia – mai vista una passione simile per il calcio: uomini, donne, bambini, anziani, tutti innamorati del pallone, compreso il capo dello Stato. Il giorno della partita, c’erano quattromila persone senza biglietto fuori dallo stadio. Puntiamo a tornare in Coppa d’Africa, la qualificazione al Mondiale invece sarebbe il più grande exploit nella storia del calcio. Non è il nostro obiettivo principale, però se tra cinque o sei partite siamo ancora lassù, vedremo. I tifosi possono sognare, ma gli allenatori devono stare con i piedi per terra».
Le Isole Comore fanno circa 850mila abitanti, sono indipendenti dalla Francia dal 1975 e Cusin, madrelingua francese, è favorito anche dall’idioma comune. Il clima qui è tropicale, questa è la stagione delle piogge che proseguirà fino a maggio. La stabilità politica delle Comore è fragile, dall’indipendenza a oggi i tentativi di colpo di Stato sono stati molti. «Ma rispetto a dove ero in precedenza, il Paese è sicuro. Mi sono trovato per strada alle quattro del mattino, in tutta tranquillità».

Prima di accettare la proposta della Federazione delle Comore, Cusin ha allenato la Nazionale del Sud Sudan. In due anni ha ottenuto quattro vittorie, due pareggi e otto sconfitte. «Mi sono trovato bene, pur in mezzo a mille difficoltà. Il Paese viene da vent’anni di guerra e in giro si trovano ancora molte armi. Calcisticamente non è stato facile, avevo giocatori che militavano in Africa, nel campionato locale o in quelli del Sudan, dell’Uganda e del Kenya: affrontavamo Nazionali con calciatori che arrivavano magari dalla Premier League inglese. Se nasci e cresci in Africa, porti avanti delle lacune difficili da colmare. Lo stadio per le partite casalinghe non era mai pronto. Impossibile fare paragoni con la bella storia del basket agli ultimi Mondiali, perché quelli sono atleti cresciuti negli Stati Uniti a cui hanno dato il passaporto. I sud sudanesi sono mediamente i più alti del mondo. Io avevo una punta di 1,91 e i due difensori centrali di 1,94, però il loro fisico si adatta maggiormente alla pallacanestro. La divisione tra i vari gruppi etnici è molto forte: alla prima lista di convocazione, i giornalisti locali mi hanno chiesto subito conto. Ma io avevo scelto semplicemente in base alle capacità dei ragazzi. Le trasferte erano complicate, a volte viaggiavamo dovendo prendere tre diversi aerei e arrivavamo a destinazione il giorno della gara, magari dopo aver dormito in aeroporto. Ora alle Comore, invece, viaggiamo con l’aereo di Stato».

Classe 1968, Cusin conosce bene l’Africa da nord a sud. Oltre alle ultime due esperienze con le Nazionali, ha allenato in Camerun, in Libia, in Congo, in Sudafrica. «Mi sono sentito straniero solo in Sudafrica, e ammetto che non mi sono trovato a mio agio in una città dove l’apartheid si sentiva ancora. Solo una volta però ho avuto paura, è successo in Camerun. Mi trovavo in viaggio con alcuni diplomatici italiani, nell’ovest del Paese, verso la capitale, attraversando ore di savana. Durante un rifornimento di benzina ho notato un bambino che al telefono sembrava avvisasse qualcuno del nostro passaggio, in un territorio in cui gli attacchi ai bianchi erano frequentissimi. Ce la siamo cavata, ma in quella occasione ho temuto il peggio».

Riti magici

In Africa il mister si è abituato a episodi di stregoneria, che qui sono molto diffusi. «In Sudafrica ogni squadra ha un suo stregone, che al calciomercato vale quanto un attaccante. Uno stregone in grado di far vincere cinque partite di fila alla sua squadra viene chiamato subito da un altro club. In squadra ne avevo uno, ma l’ho mandato via dallo spogliatoio perché era troppo invadente. A mia insaputa portò i ragazzi a fare un bagno in un fiume, così non si presentarono all’allenamento a quarantotto ore dalla gara. Alla domenica lo buttai fuori tra i due tempi, mentre accendeva un falò in spogliatoio e l’aria diventava irrespirabile. Mi disse che tutto questo mi avrebbe portato sfortuna, perché era stato lui stesso ad avermi scelto tra i vari curriculum arrivati in società. La stregoneria va però rispettata, perché loro ci credono. Negli Emirati Arabi ero il vice di Zenga all’Al-Nasr. Dopo due sconfitte di fila, il nostro portiere volle parlare con Walter: secondo lui un ex dirigente per ripicca aveva messo qualcosa nell’erba e questo aveva modificato il rimbalzo del pallone, facendoci perdere 3-0. Hanno fatto arrivare da Londra nuovi tappeti erba, annaffiando il terreno per tre giorni. Alla domenica abbiamo fatto un bagno di due minuti in mare, e da quel momento abbiamo vinto tutte le partite: dalla terzultima posizione siamo giunti alla qualificazione in Champions. In Africa ho visto cose incredibili, non mi stupisco più di nulla».

L’esperienza in Cisgiordania

Dopo una carriera da calciatore in Francia, Guadalupa e Svizzera (giovanili con il Servette e serie B con l’Étoile Carouge), Cusin ha iniziato ad allenare in Italia nei settori giovanili. Ma da subito è partito alla scoperta del mondo, spesso come secondo di Zenga, che se l’è portato con sé anche nell’esperienza di Wolverhampton. Nel 2015 Cusin viene ingaggiato dall’Alhi, società di Hebron, in Cisgiordania. Vince la Coppa nazionale e la Coppa di lega.

«Erano quindici anni che non si disputava più la Supercoppa di Palestina – racconta il coach – contro la squadra che aveva vinto il campionato della Striscia di Gaza. Fu Blatter a volerlo. Siamo partiti da Hebron, passando per il territorio israeliano, per arrivare infine nella Striscia di Gaza. I miei giocatori non avevano mai visto quei posti, hanno notato come le differenze fossero abissali in quanto a infrastrutture e a tutto il resto. Oggi fa impressione dirlo, ma a Gaza siamo stati ricevuti dal capo di Hamas, con cui abbiamo parlato di calcio».
Mister, tornerà ad allenare in Europa? «A inizio carriera un po’ ci soffrivo di dover lavorare all’estero. Ma fuori mi hanno dato la possibilità di fare il mio mestiere e di crescere». Ad ogni modo Zenga, oggi direttore tecnico in Indonesia, lo aveva chiamato chiedendogli di raggiungerlo, ma lui era già sotto contratto in Sud Sudan. «Walter è come un fratello per me, e qualcosa insieme torneremo a farla. Lui mi ha fatto conoscere il calcio che conta».