Calcio

Spalletti, il mister che non abbraccia i suoi giocatori

Ritratto del tecnico toscano che alla guida del Napoli ha conquistato il campionato riuscendo infine a ritagliarsi un posto nella storia della Serie A

In sintesi:
  • Dopo 26 anni di carriera in panchina, l'allenatore toscano conquista infine un successo prestigioso
  • Spesso indecifrabile nelle interviste, Spalletti resta ancora per certi versi un enigma
10 maggio 2023
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Luciano Spalletti parla strano ed è facile ricordarlo per questo. I suoi modi di dire sono diventati parole d’ordine per chi vuole entrare nell’ordine esoterico degli intenditori della Serie A. Il lato cieco, le galline del Cioni, il tacco e la punta. E poi gli uomini forti e i destini forti. Massimiliano Allegri nella conferenza stampa pre-partita di un Juventus-Roma di fine 2016 ha detto che Spalletti «a volte è anche un bravo attore».

E se mi chiedo a che attore assomigli Spalletti non può che venirmi in mente un Klaus Kinski toscano, più subdolo e meno esplosivo. Spalletti al tempo rispose così: «Dice che sono un bravo attore perché non mi ha mai sentito cantare, quando ci rivedremo glielo farò sentire», e come al solito non si è capito cosa intendesse, se intendesse davvero qualcosa o se è così che in Toscana ci si scambia frecciatine tra uomini (nella stessa conferenza stampa disse anche che Allegri «è un livornese verace e i livornesi sono astuti»).
In effetti, però, è difficile credere che qualcuno possa essere in quel modo al naturale, cioè nel modo in cui si presenta e parla Spalletti, che non ci sia dietro una cura del personaggio.

Dove sta il trucco?

E se ci pensate in effetti è impossibile parlare di Spalletti solo come allenatore, evitare di citare il suo modo di parlare, la retorica arzigogolata, l’uso asfissiante dell’impersonale. La paranoia che sembra rendere la sua vita un inferno tragicomico. Spalletti fa pensare a quella scena di ‘The Prestige’ in cui i due illusionisti rivali, Alfred Borden e Robert Angier, vanno a vedere un numero di magia inventato da un vecchio collega cinese per scoprire dove sia il trucco, perché nessuno riesce a capirlo.

Il numero è semplice: il prestigiatore agita un panno davanti a un tavolino basso, poi lo toglie di scatto e sul tavolino è comparsa una boccia piena d’acqua con un pesce rosso al suo interno. Dov’è il trucco? L’illusionista più talentuoso, Alfred Borden, mentre a fine spettacolo lo guarda uscire tutto decrepito dal teatro, non ha dubbi: «Quello è il suo trucco, è questa la sua esibizione, ecco perché nessuno capisce il suo metodo». La teoria di Borden è che il vecchio illusionista cinese in realtà nella vita si finga decrepito e zoppicante per poter portare la boccia piena d’acqua tra le gambe sul palco, rendendo il trucco invisibile. Il rovesciamento totale del rapporto tra vita e arte, che rende la vita arte.

Che quella di Spalletti sia tutta una recita è possibile, d’altra parte tutti gli allenatori sono almeno in parte anche degli attori. Parliamo di un lavoro che consiste, andando all’osso, nel parlare ai propri giocatori e ai giornalisti, e vince chi alla fine risulta più credibile a entrambi. Spalletti, però, sembra essere l’unico, tra i grandi allenatori, a essere invece in aperto conflitto con il proprio personaggio. Perché se quello che ci fa vedere è solo recitazione, a cosa serve esattamente?

Il percorso

La storia di Spalletti in Serie A comincia nel 1997 a Empoli e leggendo le interviste di 23 anni fa sembra non sia cambiato niente. Ce n’è una molto bella di Gianni Mura in cui c’è tutto. A partire da quelle frasi che sembrano rivelare una verità più grande ma che perdono di senso mano a mano che si rileggono: «Il mio babbo diceva che nella vita bisogna sapersi accontentare e io ho sempre pensato che più d’una bistecca al giorno non mangio e quindi me ne frego della mucca intera».

A Empoli Spalletti viene considerato un genio (“Su qualche muro, vedo manifesti azzurri con su scritto in nero: Sacchi più Zeman uguale Spalletti”, scrive Mura), poi le cose peggiorano, e sarà così per tutta la sua carriera fino a oggi. Passa alla Sampdoria ma viene esonerato, ci riprova a Venezia e anche questa volta viene esonerato (più volte), viene ingaggiato dall’Udinese ma dopo poco viene sostituito. Poi ci sono le esperienze positive che lo portano in cima: prima Ancona, poi di nuovo Udine, infine la Roma.

È qui che trova la consacrazione, ma invece di passare all’incasso opta per l’esilio dorato allo Zenit di San Pietroburgo. Ci passa quasi cinque anni, poi ce ne mette un altro paio per ritrovare una nuova panchina, di nuovo a Roma. Il ricordo di ciò che ha fatto in Italia è troppo lontano e deve ricostruirsi una reputazione in un calcio che sembra completamente nuovo. La sua scalata verso le vette del calcio italiano sembra procedere così, con grandi cadute e faticose risalite, senza mai arrivare in cima. Anzi, rimanendo sempre più o meno nello stesso punto.

Alla Roma arrivano i record di punti e di gol ma nessun trofeo, e dopo il duello rusticano con Francesco Totti è costretto a fare un passo di lato, nell’Inter in ricostruzione che sta tentando di tornare grande. Arriva di nuovo un piazzamento – la qualificazione in Champions League – ma nessun trofeo. Dopo l’esonero, due anni di pausa che mettono altra polvere sulla sua figura di allenatore che non ce l’ha fatta.

L’approdo a Mergellina

Nell’estate del 2021 viene chiamato dal Napoli e sembra un ridimensionamento. La squadra azzurra ci ha provato con l’utopia di Sarri e non ce l’ha fatta, con la realpolitik di Ancelotti e non ce l’ha fatta, con la grinta di Gattuso e non ce l’ha fatta. Perché ce la dovrebbe fare con questo allenatore invecchiato che in Italia non vince nulla da tredici anni? Nella conferenza stampa di presentazione dimostra di non essere cambiato di una virgola. Parla della sua amata campagna («A volte fa bene perché si cammina a piedi, siccome c’è tanta strada da fare avere i piedi forti è importante»), dei due anni sabbatici, del perché ha scelto il Napoli, tutto senza che si capisca un’acca. «Ho allenato a Roma, nella città del Papa e nella città eterna. A San Pietroburgo, la città degli Zar, e a Milano, che è la città della moda, dell’industria, dove c’è la Madonnina. […] Napoli è la città di San Gennaro, dove il calcio e i miracoli sono la stessa cosa». Quando gli chiedono del gioco lui parla di «piazzole sulla linea difensiva avversaria», di «rumba delle posizioni». Torna persino la mucca, a chiudere il cerchio che aveva aperto 24 anni prima: «Io mangio una bistecca al giorno, non ho bisogno di una mucca».

Definito dai suoi calciatori

Esattamente com’era successo cinque anni prima a Roma, però, anche sul campo non sembra invecchiato. Il primo anno ricostruisce il Napoli con una forte impronta di possesso e un lato forte a sinistra, ma a fine stagione perde tutti i suoi vertici (Koulibaly, Fabian Ruiz e Insigne) ed è costretto a ricominciare da capo. Semplicemente sembra non destinato ad arrivare dove vorrebbe e con la sua retorica labirintica potrebbe finalmente rinchiudersi nella narrazione del genio incompreso, andare alla deriva come uno Zeman più espansivo. E invece Spalletti, con forza di volontà invidiabile, dopo un quarto di secolo in panchina torna di nuovo al campo a cercare una soluzione.

Certo, è aiutato dal mercato ma anche dal lavoro che aveva già iniziato a fare. In mezzo alla difesa lascia Rrahmani, che aveva già rivitalizzato per rottamare uno dei suoi difensori-archetipi, Manolas, poi rovescia il triangolo di centrocampo e al centro ci mette Lobotka, che aveva iniziato a responsabilizzare già l’anno prima. Delusione dopo delusione, fallimento dopo fallimento, Spalletti è riuscito a non dimenticare che tutti i problemi di un allenatore alla fine sono problemi di campo. E che il campo sono i giocatori.

Se ci pensate, non esiste allenatore che è stato definito dai suoi giocatori quanto Luciano Spalletti. Quando si parla di Spalletti non si parla di identità e grandi principi, il suo lavoro lo si vede in controluce attraverso i giocatori che ha allenato. David Pizarro metronomo davanti alla difesa, Perrotta incursore a scoprire cosa c’è dietro la difesa avversaria, Totti falso nove a non dare punti di riferimento, Brozovic trasformato nel miglior regista del campionato, fino ad arrivare per l’appunto alla reinvenzione di Stanislav Lobotka. Non si può parlare di questi giocatori senza parlare di Luciano Spalletti e viceversa, e allo stesso modo le sue squadre non vengono ricordate per il gioco, ma per i giocatori. Il Napoli di Sarri era di Sarri, per l’appunto, mentre il Napoli di Spalletti è il Napoli di Kvaratskhelia e Osimhen, di Lobotka, di Kim, di Di Lorenzo e di Anguissa. Un paradosso, vista la sua personalità ingombrante davanti ai microfoni.

Diverso da tutti

E qui torniamo allo Spalletti attore. Al dubbio che la sua recita sia diretta proprio a loro, ai suoi giocatori, per fargli credere che sappia un segreto. Spalletti non bisogna capirlo, in Spalletti bisogna crederci, e i giocatori il più delle volte ci credono perché chi ci ha creduto alla fine è stato ricompensato. In questo il suo modo di parlare, di comportarsi, assomiglia davvero ai riti esoterici: pronunciare parole incomprensibili, perdersi nel buio del labirinto per uscirne nuovi, con una coscienza espansa e una migliore comprensione della realtà. E come con i riti esoterici, ci si può fermare di fronte all’ingresso del labirinto spaventati oppure entrarci e abbandonarsi fino in fondo. In questo senso, vengono in mente le parole di Giuly che, dopo aver giocato a Barcellona, arrivato a Roma all’inizio rimase “scioccato”: «Tutti facevano la stessa cosa e io mi sentivo quasi incapace di giocare a calcio».

Per un allenatore che è stato definito così tanto dal rapporto con i suoi giocatori per certi versi è sorprendente vedere come si comporta in panchina. Spalletti non abbraccia i suoi giocatori come un fratello maggiore, come fa Antonio Conte, né li istruisce fino al minimo dettaglio mettendogli un braccio intorno al collo come Pep Guardiola. Spalletti gli urla dietro, li incenerisce con lo sguardo, oppure fissa l’erba a terra con lo sguardo vacuo, sembra tormentato dai suoi fantasmi, con gli occhi da Nosferatu. Quando parla con la stampa è difficile sentirlo elogiare in maniera esplicita i suoi giocatori migliori. Spalletti chiese a Dzeko di «diventare ancora più cattivo» quando segnava quasi in ogni partita, nella stagione in cui arrivò al suo record, e a Osimhen di immaginare «quanto ancora può migliorare», nel momento in cui semplicemente sembrava indifendibile per qualsiasi squadra di Serie A. In generale è difficile conciliare l’allenatore che fa fiorire i suoi giocatori con il personaggio che ai microfoni parla dei «giusti comportamenti», che ama fare il pedagogo, che a bordocampo insegna ai bambini, che fa le lezioni di tattica in diretta nazionale.

Il successo, finalmente

A pensarci bene, però, questa recita non è diretta ai suoi giocatori, ma a noi che lo guardiamo agitarsi davanti alla sua panchina come l’Amleto. Perché oltre ai suoi giocatori, da convincere che lui sappia un segreto ci siamo anche noi, come opinione pubblica o come stampa. E noi, così come i suoi giocatori, di fronte al labirinto della sua retorica ci siamo divisi. C’è chi è entrato e ne è uscito adepto di un culto minore, e chi invece è rimasto fuori, spaventato o inorridito da tanto ermetismo, scambiandolo per eccessiva cerebralità o addirittura per freddezza.

Spalletti, in ogni caso, è andato avanti con una fiducia nelle sue capacità invidiabile persino per il suo fan più sfegatato, fino a raggiungere quella vittoria che adesso rende il suo valore finalmente inattaccabile. E lo ha fatto sempre allo stesso modo: tornando al campo. È lì che ha trovato alla fine il suo capolavoro, arrivato dopo 26 anni di esperimenti, di studio, di tentativi. Un successo talmente limpido che sembra spiegarsi da solo. Il Napoli ha vinto perché è la squadra migliore, cioè quella che gioca meglio e che ha i giocatori migliori. Tutto qua.