Cinque autrici, altrettante tematiche. Un libro che intende scardinare preconcetti e vizi di forma nel raccontare le imprese delle atlete
Un lampadario di cristallo in una stanza piena di ombre. La donna è chiamata “a snaturarsi” e sperimentare “la scomparsa di sé” onde ricavarsi spazio in un ambiente occupato principalmente da uomini. È stato il caso di Roberta Gibb, cinquant’anni or sono: in barba (e non poteva essere altrimenti) a irrazionali limitazioni, la statunitense corse la maratona di Boston cercando di celare il suo corpo indossando abiti maschili. Un preconcetto da ricondurre a presunte lacune fisiche, che ritorna nelle storie raccontate in ‘Fondamentali’ edito da 66thand2nd. Nato dalla curatrice Giorgia Bernardini, e arricchito dalle penne di Alessia Tuselli, Elena Marinelli, Olga Campofreda e Tiziana Scalabrin, il progetto riunisce cinque donne attive in ambito giornalistico e/o editoriale. Il motivo, bisogna cambiare i canoni della narrazione.
Il mondo sportivo è «da secoli pensato e concepito secondo regole, luoghi e strutture fortemente maschili – evidenzia Scalabrin –. Una metamorfosi è in atto, ma le atlete di cui parliamo evidenziano aree grigie ancora da (s)chiarire in modo da raggiungere la parità. Nel suo capitolo Alessia parla ad esempio delle presunte frodi di genere di cui è accusata Caster Semenya. Il ‘sex testing’ è una pratica violenta, invasiva e sbagliata nei presupposti. Non si può contestare il sesso di appartenenza di una persona sulla base di caratteristiche fisiche sospette o prestazioni eccezionali». La mezzofondista è infatti affetta da iperandrogenismo. Una condizione discriminante giunta sino alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma non ancora risolta. «L’attività sportiva è sancita nella Costituzione italiana come diritto fondamentale alla crescita e alla formazione al pari dell’educazione più elementare». Non a caso il titolo del libro è ambigenere, cioè sia maschile che femminile. «Una ricerca linguistica ha permesso d’individuare piccole abitudini che inevitabilmente rappresentano un ostacolo alla narrazione: si dice la squadra campione del mondo, eppure la grammatica vuole che l’aggettivo sia declinato secondo il genere del sostantivo. Il maschile sembra tuttavia più appropriato». Un’iniquità che rientra nella cultura, spesso arcaica.
La trama è imbastita senza mezzi termini, fra intrecci e cuciture. Nel dipanare il racconto le autrici non lesinano critiche a stereotipi presenti nel mondo del giornalismo. Un ambito che permette alla “notizia più marginale sul calcio maschile” di ricevere attenzione, condannando invece le discipline femminili anche di successo a “disinteresse” e anonimato. «I mass media riconducono ciò alla mancanza d’interesse, una retorica falsa e ingannevole». Una storia non “si racconta” infatti “perché si ha già un pubblico, ma dal racconto nascerà il pubblico” che illuminerà le imprese delle atlete. Il settore femminile muove una quantità minore di soldi, eppure «i Mondiali di calcio hanno dimostrato che nei Paesi in cui non si ha una squadra maschile tradizionalmente dominante, le partite riescono a radunare più spettatori». Nei media i risultati sportivi di questa metà del cielo sono comunque spesso ignorati, screditati, focalizzando l’attenzione su aspetto fisico, vita privata e sessualità. Che siano le doti da ballerina di Ada Hegerberg o il rossetto di Marta. «Un modello che non si basa sulle qualità tecniche, ma, piuttosto, evidenzia inadeguatezza. Il corpo femminile dev’essere fragile, piacere, e non ad esempio correre una maratona», continua Scalabrin. E, ciò, può creare malessere. L’enfasi sull’estetica causa infatti problemi di salute quali anoressia, bulimia e insoddisfazione; condizioni sperimentate «pure da sportive affermate. Queste sono riuscite a riconoscere il proprio talento, ma hanno sofferto della loro immagine: quando una donna cerca di cimentarsi in una disciplina considerata maschile (che richiede forza, aggressività e competitività), la sua identità di genere è messa in discussione». Il libro intende quindi “distruggere la connotazione negativa che affligge le atlete che esprimono la propria personalità” sul campo. L’uomo è un lottatore, la donna fastidiosa e sopra le righe.
Non è comunque solo una metà del cielo a essere contraria: le stesse donne ridicolizzano e deridono chi ha una passione, come ad esempio il calcio. «È qualcosa che riempie le nostre giornate, quindi è normale formarsi delle opinioni. Chiunque sfogli queste pagine deve mettere in discussione le sue concezioni, essere curioso». A iniziare dalla componente maschile, spesso imbarazzata nel parlare di alcune tematiche come il ciclo mestruale (a cui Scalabrin dedica il suo capitolo, esprimendosi talvolta in modo schietto). «Una condizione specifica naturale, di cui tecnici e dirigenti non riescono a capirne le ripercussioni. È difficilissimo in quanto è un’esperienza individualmente differente, che può cambiare nel corso della vita». Una mancanza di comunicazione peggiorata dall’arretratezza «drammatica e ingiustificabile» di studi «fatti su un numero ridicolo di persone, ma ricerca e divulgazione sono fondamentali… Questo è da ricondurre a pregiudizi culturali storicamente ben radicati, che bisogna scardinare». Le rimostranze sono numerose, parlando anche di capi d’abbigliamento, tuttavia il cambiamento si attua «solo quando c’è la possibilità di un ritorno economico. Un esempio, la commercializzazione della linea ‘Leak Protection’ realizzata da Nike». Non da ultimo infrastrutture, società e allenamenti pensati a misura d’uomo, che non rispecchiano quindi le necessità delle ragazze.
L’ambito sportivo è il riflesso della società: in alcuni Paesi in cui per la donna è più difficile emanciparsi da “un percorso già segnato” può essere fonte di cambiamento. Non a caso la schermitrice Alexandra Ndolo, tedesca ma di origini africane, ha creato una fondazione volta a promuovere la sua disciplina e soprattutto permettere alle giovani donne keniane di ritagliarsi il proprio spazio nella comunità. Una storia esemplare, che induce le bambine a sperare di ripercorrere le sue orme intraprendendo una carriera da professionista. Le imprese delle atlete sono difficilmente prese a modello e, infatti, «le camere dei bambini sono adornate da foto di calciatori o giocatori di pallacanestro. È capitato pure a sportive oggi affermate. Negli ultimi cinquant’anni le donne hanno praticato attività fisica, ma nell’anonimato». Il “loro ruolo di superstar è ancora un risultato straordinario”, inteso come “fuori dall’ordinario” «eppure, data la storia più breve, ogni giorno conquistano record o prestazioni di spessore di cui nessuno parla». Nemmeno (volenti o nolenti) le giornaliste, a loro volta tacciate d’incompetenza. E, forse, in campo giornalistico i pregiudizi sono ancora più radicati «in quanto sono più subliminali. La donna è una comparsa, condannata a un ruolo da comprimaria». Non c’è tuttavia il rischio di apparire petulanti o cadere nell’autocommiserazione? «Non ho paura di risultare antipatica: ci hanno educato a non essere fastidiose, ma bisogna esporre le proprie opinioni e definire qualche paletto». D’altronde ci sono ancora numerosi ostacoli da superare. E come affermato nel libro, riprendendo le parole dell’ex capitano della nazionale italiana di calcio Sara Gama, il riconoscimento di pari opportunità “è un continuum temporale in cui” ognuna “percorre un pezzettino di strada e passa il testimone, dopo aver conquistato diritti per sé e per le ragazze che verranno” che dovrebbero essere fondamentali. Queste atlete sono fonte d’ispirazione per tutte quelle bambine che ambiscono a calciare un pallone o correre più veloce della luce. E per raggiungere sul campo, in pista e sulle pagine stampate quell’equità di trattamento per cui si battono da anni.