In Francia da domani si giocano i Mondiali di una disciplina che, malgrado sforzi e cambiamenti, continua a suscitare passione solo in pochi Paesi
Duecento anni dopo la sua nascita ufficiale (è datato 1823 il famoso sberleffo di Webb Ellis), il rugby celebra il suo bicentenario con l’edizione numero dieci della Coppa del mondo, la seconda organizzata in Francia dopo quella del 2007, vinta dal Sudafrica.
William Webb Ellis, il ragazzino che un giorno, nel college di Rugby, nel Warwickshire, prese la palla in mano inventando un nuovo gioco, riposa su una collina sopra Mentone: tocca ai francesi pertanto conservare la tradizione del rugby, dopo che gli inglesi lo hanno inventato ed esportato nei Paesi dell’allora impero britannico. Da lì la palla ovale ha fatto meno strada di quanto avrebbe dovuto coprirne in due secoli di storia.
Ai Mondiali che domani cominceranno allo Stade de France di Parigi con una sfida stellare tra i padroni casa e gli All Blacks, partecipano come sempre 20 squadre. Alle venticinque in totale che hanno preso parte alle precedenti nove edizioni, si aggiunge quest’anno un’unica novità, il Cile che nelle qualificazioni ha eliminato gli Stati Uniti. I Mondiali di calcio, tanto per fare un esempio banale, presentano in una sola edizione più squadre (32) di quante nel rugby in 36 anni (la prima edizione della Coppa del mondo data 1987) siano approdate alla fase finale, che sono 26 in totale. E a Budapest, ai recenti Mondiali di atletica, sono saliti sul podio atleti di 46 diversi Paesi.
Nonostante le ambizioni e gli sforzi, il rugby resta lontano da un’audience globale: in un pianeta di quasi 8 miliardi di abitanti, quelli che conoscono la palla ovale saranno 500 milioni, a dir tanto. Perché? Nato nei college britannici più esclusivi e subito fatto proprio dai gentlemen per educare i giovani delle classi dirigenti allo sforzo e alla disciplina, il rugby aveva uno scopo prioritario: temprare quei rampolli alla fatica e abituarli al rispetto delle regole attraverso uno strumento nuovo, un’attività che simulava la guerra.
Gli inglesi pensavano che lo scopo dello sport e dei giochi di squadra fosse quello di costruire la fibra morale della nazione. Il rugby nacque come sport di paradossi nell’Inghilterra vittoriana: si avanza passando la palla indietro. Per di più, la palla ovale ha sempre chiamato fair play quello che in altre discipline sarebbe semplicemente brutalità, e rispetto ciò che in altri sport manderebbe uno di noi all’ospedale.
Dunque il rugby nasce come confronto alla pari fra pari, accompagnato da simbologie e riti laici: il cap, che distingue chi ha giocato, la cravatta, che mostra l’appartenenza al club, la maglia, i cui disegni sono spesso mutuati dall’araldica medievale.
Ma quello che ne fa uno sport originale, e ha mantenuto più a lungo che in qualunque altra disciplina le origini elitarie dello sport moderno, è il dilettantismo, che nel rugby si è protratto fino addirittura al 1995, preservandone in modo diciamo pure anacronistico peculiarità e passioni.
Ora il rugby è certamente cambiato dalle sue origini: quale sport non lo ha fatto nell’arco di un secolo o due di storia? Nato violento, feroce, aggressivo, brutale (“ci davamo i calci in testa…”, ha detto di recente l’irlandese Ronan O’Gara), oggi però questo gioco fatica a trovare un punto di equilibrio tra la sua natura di sport di combattimento, talvolta anche bestiale, e uno standard di confronto vigoroso che sia accettabile per il mondo attuale, fatto di riprese televisive dettagliate, attenzioni accurate al benessere individuale degli atleti, class action collettive da parte di chi ha sofferto di infortuni e tanto altro ancora.
Il caso del capitano inglese Owen Farrell è paradigmatico: punito con un cartellino giallo dall’arbitro di Galles - Inghilterra dello scorso 12 agosto, giudicato colpevole di un fallo grave (spallata in faccia a un avversario) dall’ufficiale (“bunker”), che guardando la partita sul video può aggravare nel corso del match la punizione, elevando il cartellino da giallo a rosso. Assolto dalla commissione giudicante che, a bocce ferme, ha ritenuto l’intervento giustificato da alcune attenuanti, infine squalificato per quattro giornate, dopo il ricorso dello stesso organismo mondiale.
A che gioco giochiamo? La risposta è determinante per il futuro di uno sport che nell’ultimo quarto di secolo ha cambiato quasi ogni anno le regole per diventare più presentabile, più appetibile per famiglie e televisioni, senza riuscire però ad allargare la sua fruizione al di fuori dei confini più tradizionali e, in molti casi, senza riuscire semplicemente a rendersi più comprensibile ai non addetti ai lavori.
E così, nonostante le frequenti innovazioni regolamentari e disciplinari, non solo si continuano a verificare scontri di gioco pericolosi (il rugby è un gioco pericoloso), ma resta difficile prescindere anche dalla sua fisicità che, ad alto livello, continua a creare una barriera insormontabile per quei Paesi che non possono pescare in bacini profondi e non dispongono di ragazzi con quelle caratteristiche atletiche.
Negli anni recenti la tecnologia, le riprese video, i gps, hanno aiutato il rugby a serrare le difese, superare una squadra schierata in mezzo al campo è sempre più difficile, il modo più semplice per avere la meglio su un avversario diretto è abbatterlo, essendo più grosso di lui: nel 1973 la mischia della Nazionale italiana che per la prima volta andò in tournée in Sudafrica pesava circa 750 chili. Oggi Francia e Sudafrica, due delle favorite alla prossima Coppa del mondo, possono schierare pack che arrivano a 950 chili: sono circa 25 chili in più a giocatore.
Questa deriva muscolare avvicina sempre di più il rugby a uno scontro di titani, non deve sorprendere pertanto se nel cerchio ristretto delle squadre di élite diventa sempre più difficile entrare. Francia e Sudafrica, abbiamo detto. I primi sognano finalmente di vincere un Mondiale, dopo aver perso tre finali (1987, 1999, 2011).
I sudafricani viceversa si ritengono depositari dello spirito più profondo del gioco ovale: fisicità, durezza, aggressività senza pari. L’inserimento nella squadra, dopo la fine dell’apartheid, della velocità e della fantasia dei giocatori di colore (in questa squadra Arendse, Kolbe, Moodie) ha solo leggermente ingentilito quello che resta un approccio al rugby basato su forza e vigore.
La Francia invece ha aggiunto chili (il pilone Atonio, di origini neozelandesi ne pesa più di 140) a quella che era la sua tradizionale fantasia, fatta di sortite improvvise, accelerazioni brucianti, cambi di direzione ubriacanti: oggi i Bleus sono una Formula 1 con la carrozzeria del carro armato. E con loro gioca il mediano di mischia Dupont, considerato da molti il miglior giocatore del mondo in questo momento.
A queste due squadre vanno aggiunti gli All Blacks, ovviamente, e l’Irlanda. I neozelandesi dopo un paio di stagioni di crisi hanno ritrovato estro e velocità. Schierano i tre fratelli Barrett (Scott in mischia, Jordie e Beauden fra i trequarti), Richie Mo’unga all’apertura, due sprinter come Rieko Ioane e Will Jordan fra gli attaccanti. Durante l’estate hanno dominato ancora una volta il Rugby Championship (con Argentina, Sudafrica e Australia), ma una settimana fa a Twickenham, nell’ultima amichevole di preparazione alla Coppa del mondo, sono incappati contro il Sudafrica nella sconfitta più pesante della loro storia ultracentenaria: 7-35. Inciampo di mezza estate o presa d’atto del fatto che esprimere il proprio gioco davanti a una squadra capace di intimidirti sul piano muscolare è molto, molto complicato?
Infine l’Irlanda: disciplina e organizzazione, schemi collaudati e precisione. Da più di un anno è la squadra numero uno al mondo. Ma il suo regista, Johnny Sexton, ha già 38 anni: reggerà la pressione di tante sfide dure e per di più ravvicinate? Difficile pensare che nel pronostico si possa infilare qualcuna delle altre partecipanti al Mondiale: non l’Inghilterra, potenza nei numeri, ma sconfitta pochi giorni fa, per la prima volta, dalle Fiji. Non il Galles, alle prese con permanenti problemi finanziari e organizzativi. Non l’Australia, che nemmeno il recente ingaggio del guru Eddie Jones in panchina sembra risvegliare dal torpore che ha messo i Wallabies in basso nella graduatoria degli interessi del pubblico nel Paese dei canguri.
Due gli outsider: l’Argentina, sempre a suo agio quando ci sono da mettere in campo grinta e motivazioni, e la Scozia inserita però in un girone micidiale (passano solo le prime due) con Sudafrica e Irlanda. Non aiuta a rendere la festa più ecumenica una formula che delle prime cinque del ranking (nell’ordine Irlanda, Sudafrica, Francia, Nuova Zelanda e Scozia) permetterà soltanto a due l’accesso alle semifinali.
L’Italia è inserita nella Pool A, con Namibia, Uruguay, Nuova Zelanda e Francia: le prime due sono ampiamente alla portata degli Azzurri, sarebbe un delitto non batterle. Le altre due... inutile parlarne. Innescata dal giovane talento italo-francese (gioca a Tolosa) Ange Capuozzo, la squadra del neozelandese Kieran Crowley (lascerà la panchina dopo il Mondiale) sogna un miracolo. Nello sport talvolta accadono. Nel rugby in realtà un po’ meno.