Nell’inverno del 1978, il navigatore Ambrogio Fogar e il giornalista Mauro Mancini furono vittime di un naufragio conclusosi purtroppo tragicamente
Quarantacinque anni fa, in queste stesse settimane fra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, due uomini se ne stavano raggomitolati sul fondo di una zattera autogonfiante rassegnati alla prospettiva, secondo loro ormai ineluttabile, della morte. Dopo 74 giorni alla deriva nell’Atlantico meridionale, in un punto imprecisato di una porzione di mare dalla superficie incalcolabile, erano ridotti pelle e ossa. Dal giorno del naufragio, avevano perso entrambi oltre 40 kg, ben oltre la metà del proprio peso corporeo. Freddo, fame, sete e umidità ne avevano minato, oltre al fisico, pure il morale e la capacità di discernimento.
Per evitare di piombare ancor più nella disperazione, ma soprattutto per risparmiare anche la più piccola stilla di energia, avevano adottato la regola del silenzio, parlandosi solo per un’ora al giorno. Da quando erano terminati i pochi viveri che erano riusciti a trasferire in fretta e furia sulla zattera – prima che la loro imbarcazione colasse a picco – avevano potuto contare soltanto sull’acqua piovana, che per fortuna a quelle latitudini cade spesso, e su qualche mollusco che aveva cominciato a colonizzare il fondo del guscio di gomma e plastica che li teneva a galla.
L’uomo più anziano, cinquant’anni, si chiamava Mauro Mancini e faceva il giornalista. Si era imbarcato per seguire dal vivo l’impresa in cui l’altro uomo si era lanciato, e per poterne poi scrivere sui giornali che lo pagavano. Il più giovane, 36 anni mezzo, si chiamava invece Ambrogio Fogar e, dopo aver già compiuto svariate imprese estreme – come ad esempio girare attorno al mondo in solitaria (402 giorni consecutivi in mare fra il 1973 e il 1974) – stavolta si era messo in testa di circumnavigare, su una piccola barca di legno, nientemeno che il continente antartico.
Triestino di Milano, per questa nuova avventura Fogar si era dunque messo al timone la mezzanotte del 22 ottobre 1977, a Castiglione della Pescaia, diretto a Buenos Aires. Era solo, Mauro Mancini l’avrebbe infatti raggiunto in aereo quasi due mesi più tardi. Trascorse le Feste e riparato il Surprise – scafo a vela in legno di 11 metri scarsi varato una decina d’anni prima – dalla capitale argentina presero insieme il mare nei primi giorni del 1978, con l’idea di raggiungere al più presto Ushuaia, ultimo avamposto del continente sudamericano non lontano da Capo Horn, da cui poi sarebbero ripartiti per l’Antartide e per l’impresa vera e propria. L’idea, come detto, era quella di fare il giro completo attorno al continente più meridionale, mettendo la barca in secca e rientrando in aereo in Europa quando gli inverni avessero reso impossibile proseguire la navigazione: in tutto, ci avrebbero impiegato quasi tre anni. Ma non sarebbero mai riusciti a spingersi così a sud, perché il 14 gennaio, dopo pochi giorni di regata faticosa con forte vento contrario e solo 500 miglia percorse, l’impatto contro non si sa cosa aveva aperto una piccola falla che li aveva indotti a invertire la rotta e a tornare a Mar del Plata già il mattino seguente.
Delusi e consapevoli di dover rinunciare al sogno che stavano coltivando, si erano un po’ troppo rilassati e avevano abbassato la soglia d’attenzione che, in barca, dovrebbe invece sempre essere a livelli massimi. Fissata dunque la nuova rotta verso nord, il mattino del 19 gennaio se ne stavano entrambi in cabina a leggere e chiacchierare quando sentirono una botta tremenda: fiondatisi in coperta, videro a pochi metri tre orche gigantesche.
Lo scontro coi mammiferi era stato così potente che il Surprise, sventrato, aveva cominciato immediatamente a imbarcare una quantità d’acqua clamorosamente superiore a quella che si sarebbe potuto asportare con la piccola pompa in dotazione. Sarebbero affondati in brevissimo tempo, e la sola cosa da fare era approntare la zattera autogonfiante, metterla in acqua e saltarci dentro, possibilmente senza bagnarsi troppo e recuperando più viveri possibile. Il Surprise si inabissò in meno di sei minuti, e i marinai riuscirono a portarsi dietro soltanto tre razzi segnalatori (due dei quali già fradici), un chilo di pancetta e un chilo di zucchero. Nient’altro, niente acqua potabile, nessun kit da pesca, nulla.
Alla deriva, senza possibilità alcuna di comunicare col mondo e in condizioni estreme fin dall’inizio, Mauro Mancini e Ambrogio Fogar vagarono per le vastità oceaniche due mesi e mezzo su un budello galleggiante di 2 metri per 2 razionando zucchero a pancetta: un cucchiaino al giorno a testa del primo, e una fettina quasi trasparente della seconda. Sfiniti, sempre bagnati e perennemente infreddoliti, preda di allucinazioni e pensieri suicidi, poterono fortunatamente integrare la poverissima dieta dapprima grazie a un pesce che, per miracolo, una mattina si ritrovarono sul fondo della zattera, e poi tramite il sacrificio di due cormorani che, avvicinatisi un po’ troppo, erano stati abbattuti dai naufraghi a colpi di remo. Guardandosi vicendevolmente, ognuno vedeva sul volto dell’altro la propria trasformazione, la consunzione, la morte che ogni giorno guadagnava un po’ di terreno.
Finché, dopo la bellezza di 74 giorni alla deriva, una notte a Mauro parve di vedere una stella più grande delle altre, una luce che, avvicinandosi, cresceva a vista d’occhio. Si trattava del mercantile greco che, autentico prodigio, fu in grado di localizzarli e recuperarli. La storia, però, non avrà lieto fine: solo un paio di giorni dopo il salvataggio, infatti, Mauro Mancini morì di polmonite in navigazione verso il Sudafrica, non lontano dalle Isole Falkland: la nave non aveva alcun medico di bordo, e le aspirine, si sa, certe cose non le possono curare.
Ambrogio, invece, continuò ancora per qualche anno a compiere le sue grandiose imprese, spesso criticate e messe in dubbio. Fogar era infatti un personaggio molto controverso, chiacchierato, spesso scontroso e dai metodi assai discutibili. Ma era uno spirito libero, figlio per sua stessa ammissione di Salgari e Verne che tanto lo avevano affascinato quand’era ancora bambino. La smania e l’ambizione lo spinsero a compiere avventure rischiosissime e senza il minimo valore scientifico: le affrontava, semplicemente, perché gli piaceva farlo e perché voleva sempre raggiungere i propri limiti, o addirittura superarli. Rimasto quasi del tutto paralizzato a seguito di un incidente automobilistico occorsogli durante un raid massacrante come la Parigi-Pechino, visse gli ultimi 13 anni continuando a scrivere libri, inventandosi programmi televisivi e ricevendo diversi premi finché, a 64 anni, un infarto se lo portò via.