La commozione cerebrale patita dal Qb di Miami ha portato a un inasprimento del protocollo per questo tipo di infortunio con immediati effetti in campo
C’era un tempo in cui la National Football League poco si preoccupava della salute dei suoi giocatori, intrappolata tra una mentalità da "far west" (ognuno è responsabile delle proprie scelte) e un business in vertiginosa espansione, in particolare grazie all’avvento dei diritti televisivi. Ma da quando nel 2009 – a sette anni dalla presentazione del primo studio – la Nfl ha riconosciuto le conclusioni riguardanti la Cte (encefalite traumatica cronica) alle quali era giunto il neuropatologo Bennett Omalu, i vertici della Lega non hanno mai smesso di lavorare per cercare di ridurre al minimo le commozioni cerebrali, alla base dell’insorgere della neuropatia. Sia con modifiche di regolamento, sia con innovazioni tecniche, in particolare sui caschi. I risultati, invero, sono piuttosto scarsi, in quanto è la natura stessa del gioco che porta a scontri casco contro casco. Tuttavia, un recente studio ha dimostrato come i casi siano calati del 50% tra quei reparti (linee d’attacco e di difesa, linebacker) che nei camp pre stagionali sono obbligati a indossare il "guardian cap", una protezione applicata sul casco. E pure i casi complessivi sembrano in diminuzione: dal 2015 al 2019 ne sono stati registrati 1’237 (in media 247 a stagione, con un picco di 281 nel 2017), ma nel 2021 il loro numero è "crollato" a 187.
A essere cambiata in modo radicale è però l’attenzione posta al problema. Se un tempo bastava che il giocatore potesse correre e fosse in grado di distinguere i compagni dagli avversari per essere ributtato nella mischia anche dopo una brutta botta alla testa, negli ultimi anni è stato introdotto un protocollo molto più severo per la diagnosi preventiva della commozione cerebrale. Al minimo sospetto il giocatore viene tolto dal campo e spedito negli spogliatoi per un’analisi medica condotta da un neurologo indipendente. Nel caso di commozione cerebrale sospetta o conclamata, viene imposto lo stop e prima di poter tornare in campo il giocatore deve superare cinque tappe di un percorso riabilitativo.
Le prime cinque settimane della nuova stagione Nfl non hanno risparmiato nuovi casi, ma uno in particolare ha destato sensazione e ha portato a un inasprimento delle regole del protocollo. Il 25 settembre, in occasione della sfida tra Miami e Buffalo, il quarterback dei Dolphins, Tua Tagovailoa, dopo aver subito una spinta inopportuna da parte di un avversario, è caduto all’indietro battendo il capo. Appena rialzatosi, ha mostrato grosse difficoltà nel rimanere in piedi, tanto da dover essere sorretto dai compagni. Sottoposto al protocollo, ha superato i test, è tornato in campo nel secondo tempo e si è reso protagonista di una prestazione maiuscola. Quattro giorni dopo, però, è stato nuovamente placcato contro Cincinnati, ha battuto di nuovo la testa ed è rimasto a terra. È poi stato evacuato in barella e trasportato all’ospedale, dove gli è stata diagnosticata una commozione cerebrale. Secondo lo stesso Tua, nel primo caso i problemi motori erano dovuti a un colpo subito alla schiena e non alla testa. Fatto sta che, sull’onda emotiva suscitata dal caso, l’associazione dei giocatori (Nflpa) ha deciso di inasprire le regole. A partire dalla week 5, se un giocatore dà segni di instabilità motoria deve essere immediatamente tolto dalla partita ed entrare nel "concussion protocol", anche nel caso in cui dovesse superare i test medici.
Le nuove direttive hanno condizionato in maniera pesante il corso della quinta giornata di campionato e hanno reso gli arbitri più sensibili, in particolare a protezione dei quarterback. A Miami, Teddy Bridgewater, backup di Tua, è stato tolto dopo la prima azione, in quanto un osservatore addetto al depistaggio di possibili infortuni (posizionato in tribuna stampa) lo avrebbe visto inciampare dopo un placcaggio (episodio non evidenziato dalle immagini televisive). Nonostante abbia superato tutti i test del protocollo, al giocatore è stato impedito di tornare a disposizione dell’head coach, costringendo i Dolphins a disputare l’intera sfida contro i New York Jets con al comando un rookie settima scelta, alla prima esperienza in Nfl (Skyler Thompson). Su un altro campo, quello di Tampa, un perfetto sack di Grady Jarrett (Atlanta) ai danni di Tom Brady è stato sanzionato come "violenza non necessaria" e punito con 15 yarde di penalità in un momento cruciale di una sfida tesa e chiusa sul 21-15 a favore dei Buccaneers. Due episodi che dimostrano come le nuove direttive debbano ancora essere metabolizzate, perché l’eccesso di garantismo rischia di falsare partite e campionati. Nel primo caso non può bastare una generica segnalazione, nel secondo, come ha affermato l’ex head coach e ora analista televisivo Tony Dungy (primo allenatore di colore a vincere il Super Bowl) «se non puoi placcare il quarterback, giocare in difesa diventa impossibile».
La salvaguardia della salute dei giocatori, per la Nfl deve diventare un mantra. Tuttavia, è utopico pensare a un football scevro da pericoli di infortuni, anche dalle gravi conseguenze. Le commozioni cerebrali sono purtroppo all’ordine del giorno, ma non esistono soluzioni miracolose per evitarle. A meno di mutare in modo sostanziale i parametri del gioco stesso. Ad esempio, togliendo le maschere protettive davanti al casco, come aveva suggerito Joe Montana, in modo provocatorio, in un’intervista rilasciata nel 2013 a laRegione. Tornando, di fatto, a un football anni Quaranta: siamo davvero pronti a tanto?