Oggi è possibile diventare chiunque uscendo dai ruoli ‘assegnati’ dalle norme sociali. Ma ci sono conseguenze sulla nostra salute mentale e sulla società
Un tempo i punti di riferimento culturali e le loro gerarchie dicevano all’individuo, in maniera abbastanza esplicita, che cosa egli fosse: un semplice pescivendolo oppure un aristocratico, una nobildonna oppure un’umile tessitrice. I figli degli artigiani diventavano artigiani, quelli dei nobili restavano nobili senza grandi possibilità di cambiare il corso degli eventi. Le identità erano in qualche modo iscritte nel nucleo della comunità e determinate da legami difficilmente dissolvibili. La devianza dal costume sociale era merce rara e la maggior parte degli individui accettava senza mettere in discussione il proprio ruolo prestabilito. Questo comportava quasi sempre un’impossibilità di scalare i piani sociali e una stabilità socioculturale che perdurò per molto tempo.
Il prezzo da pagare per un ruolo preconfezionato e pronto all’uso era bilanciato dal fatto che la maggior parte delle persone poteva accomodarsi, seppur non sempre in posizioni consolanti, in una sorta di posto fisso dell’esistenza, un contratto a tempo indeterminato dell’identità. Tale prospettiva offriva la possibilità di dare un senso alle esperienze vissute evitando di dover mettere in discussione le certezze acquisite, e questo senza il bisogno di spendere tempo ed energie nella ricerca di sé. Era una maniera istintiva, grossolana, di mettere ordine nel mondo, ma era comunque un modo efficace che ha concesso all’essere umano stabilità per lunghi periodi, pur negli scossoni che la storia, di volta in volta, gli riservava.
Al giorno d’oggi, nessuno di noi vorrebbe tornare a una tale rigidità, a un principio di autorità così forte da poter imporre a priori quale percorso di vita saremo chiamati a compiere. Difficilmente oggi qualcuno vorrebbe avere solamente una misera manciata di possibilità di fronte a sé. Di fatto, nel corso dell’ultimo secolo, non abbiamo smesso di moltiplicare a dismisura l’offerta di simboli ed esempi da seguire, trasformando la rigida eredità della tradizione in un vero e proprio supermercato delle identità. Ci siamo abituati a pensare l’individuo come a un’entità che si autodetermina, a cui nessuna possibilità è preclusa. Abbiamo identità per ogni gusto, sfizio o desiderio. Non abbiamo mai avuto una tale varietà di storie e maschere con cui agghindare la nostra persona, come se la Commedia dell’Arte avesse preso il posto del mondo precedente. Quel che accadeva in passato era odioso, la vita era segnata da grandi afflizioni e sofferenze, ma aveva il vantaggio di indicare alle persone una direzione ben precisa e di poterne seguire il sentiero per un periodo sufficientemente lungo da beneficiare dei vantaggi che il ruolo riservava.
Nel perdurare in quell’identità confezionata si potevano trovare, infatti, elementi importanti per la propria stabilità, quali ad esempio l’opportunità di poter scommettere su un percorso lavorativo in cui divenire abili, la soddisfazione delle amicizie durature che non mutavano al cambiare dell’umore, oppure la possibilità di mantenere le promesse fatte a sé stessi. Oggigiorno siamo all’esatto opposto: l’elasticità sociale è tale da permetterci di diventare quello che vogliamo, ma ciò porta spesso le persone a divenire una moltitudine di cose in pochissimo tempo, a trasformarsi ogni volta in cui l’ebbrezza del nuovo sbiadisce nella noia dell’usato. La difficoltà di oggi, insomma, sta nel fatto che la risposta alla domanda “Chi sei tu?” cambia in base alla soddisfazione che l’identità scelta riesce a offrire e che dura inevitabilmente un nonnulla. E non è detto che sia un caso che questo mare di opportunità emerga in concomitanza alla crisi culturale occidentale, rappresentata dall’incapacità di guardare al futuro con gli occhi della possibilità e di capire chi siamo davvero.
La destrutturazione delle forme culturali tradizionali da un lato, e le spinte all’individualizzazione dall’altro, hanno accelerato la dissipazione dei riferimenti condivisi, dei punti di ancoraggio sui quali sostare nei momenti di smarrimento e sui quali poter contare per compiere le proprie scelte. Oggi l’enfasi non è più sull’incasellamento gerarchico, bensì sulla responsabilità individuale, ossia l’idea di doversi costruire e di dover prendere delle decisioni in ogni ambito della propria vita. Questa libertà, combinata alla responsabilità del proprio agire e alle conseguenze che ne possono emergere, porta l’essere umano a sentirsi smarrito, spaventato e solo tra i propri simili. In fondo, ognuno si ritrova a confronto con sé stesso, lasciato solo nella ricerca della propria individualità, esclusiva e irripetibile, nel tentativo di raggiungere una soddisfacente percezione di sé.
Tuttavia, la strada verso la ricerca di un solido sentimento identitario e la capacità di dare un senso alle proprie azioni nelle differenti sfere di vita non è priva di pericoli e, anzi, il fatto stesso di percorrerla impone il suo prezzo. Il cammino per diventare sé stessi non è incoraggiato dalla logica collettiva che interpreta la diversità e la differenziazione alla stregua di una minaccia. Via via che ci addentriamo nella nostra esistenza, l’esperienza di inadeguatezza può intensificarsi: ci si può sentire, come i caratteristici personaggi di Kafka, senza le “carte in regola”. Eppure saranno proprio la presa di coscienza di questa presunta emarginazione, la consapevolezza della propria unicità e diversità, a indicare il percorso verso l’individuazione.
È bene ricordare che ancor prima della nostra nascita si accendono su di noi speranze e ipoteche, veniamo immaginati e fantasticati e che ancor prima di scoprire chi siamo e come siamo fatti, qualcuno lo ha già fatto per noi, segregandoci e incastonandoci. A conti fatti, insieme alla percezione di essere stati attesi “diversi” da come siamo, si fonde lo stupore di essere stati rifiutati per quello che siamo effettivamente diventati.
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‘Puoi essere quello che vuoi’
Con tali premesse, è comprensibile che sia difficile basare la propria autostima sulla verità di quello che siamo e che sentiamo. Per porre rimedio all’angoscia di incontrare quello sconosciuto che ciascuno di noi è potenzialmente diventato per sé stesso, scegliamo di seguire traiettorie di vita che non ci appartengono intimamente, maneggiandole razionalmente come se lo fossero, quali ad esempio progetti famigliari, di carriera e di successo.
Questa razionalizzazione, che ci avvicina a un criterio di decenza collettivo, è uno specchietto per le allodole, un’esca apparentemente rassicurante gettataci dall’esterno che costituisce, però, un tradimento della nostra mente rispetto al cuore. Difatti, il mondo sta lì con lo scopo di smentire le immagini che noi nutriamo di noi stessi e di farci di volta in volta riconsiderare i nostri riferimenti affettivi; basterebbe poca strada per farci comprendere che lo spazio in cui poter esprimere veramente la nostra singolarità risiede altrove.
Solo facendo lo sforzo di non tradire la nostra esperienza e denunciandone il conflitto psichico, possiamo esprimere uno stile esistenziale conforme e fedele alla nostra persona e condurre un’esistenza naturalmente proiettata in avanti. Chi accetta nella propria vita le contraddizioni, chi integra nella propria persona gli aspetti più in ombra, si sviluppa in modo flessibile e creativo. E in questa crescita un onesto confronto con l’esperienza del dolore, dell’incomprensibile, della solitudine e dell’abbandono costituisce la porta di uscita da un destino improprio, da una vita angusta e priva di significato.
“Se, per volontà del destino, un individuo avverte l’esigenza di conoscere sé stesso, e si rifiuta di farlo, questo atteggiamento negativo può anche procurargli una morte reale”.
C. G. Jung
*psicologo e orientatore professionale e di carriera
** psicologa specialista in psicoterapia ATP-FSP
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