di Cécile Denayrouse, Tribune de Genève, Svizzera
Chi avrebbe potuto immaginare che un furto di una bicicletta in Svizzera avrebbe cambiato la vita di più di 500mila persone in Africa?
Siamo negli anni Novanta e lo studente zurighese Paolo Richter si è appena fatto rubare la sua bicicletta. Senza soldi, ma con molto ingegno, il giovane recupera tre vecchie bicilette inutilizzabili, le smonta e ricompone i pezzi in un nuovo veicolo completamente riciclato e in perfetto stato di marcia.
L’idea di fare di quell’esperienza il suo mestiere germoglia durante una missione di aiuto allo sviluppo in Ghana, dove constata che donne e bambini sono costretti a camminare diverse ore al giorno per comperare da mangiare, per attingere alle fonti d’acqua o, semplicemente, per andare a scuola. Nel 1993, aiutato da alcuni disoccupati e dalla sua buona volontà, Richter comincia a riparare biciclette per venderle in Africa a un prezzo simbolico. Ventitré anni più tardi Velafrica, l’associazione nata dalla sua idea, ha rimesso a nuovo oltre 150mila due-ruote che hanno poi lasciato il territorio elvetico in direzione delle coste ivoriane, eritree e ghanesi. Attualmente sono sette i Paesi che approfittano regolarmente dell’esperienza svizzera nella riparazione di bicilette, grazie anche all’impegno di alcuni organizzazioni scrupolosamente selezionate.
Ma è davvero preferibile inviare biciclette invece che soldi? «Da noi la gente si sbarazza delle proprie due-ruote appena si rompono, mentre in Africa possono ancora avere una vita di dieci o vent’anni durante i quali possono trasformare la vita quotidiana di un intero villaggio – spiega Thomas Marti, responsabile dell’iniziativa per la Romandia –. Una bicicletta riciclata viene utilizzata, in media, da una quindicina di persone e permette di trasportare il triplo della merce e di andare quattro volte più veloce rispetto che a piedi». L’impatto è economico, sociale ed ecologico. Le due-ruote contribuiscono a diminuire la povertà, migliorano l’integrazione sociale, e la salute fisica di chi le utilizza.
Le bici si rompono anche in Africa, però. È stato quindi necessario pensare anche a questo. «Ci pareva importante che le le biciclette non fossero abbandonate anche laggiù. Così abbiamo deciso di formare dei meccanici sul posto che le potessero montare, ripararle e venderle. Abbiamo, insomma, creato posti di lavoro, cercando al contempo di rendere i nostri partner laggiù il più autonomi passibili».
Le biciclette che partono dalla Svizzera sono in perfetto stato di funzionamento e vengono rivendute a una cinquantina di franchi. Un impatto positivo che si riscontra però anche in patria, dal momento che Richter ha deciso di collaborare con gli atelier di reinserimento e d’integrazione nel mercato del lavoro. Velafrica riesce così a prendere due piccioni con una fava: il riciclo su suolo elvetico rappresenta un vantaggio ecologico – in media vengono risparmiati 20mila chiodi ogni anno – e al contempo favorisce il reinserimento sociale e professionale di persone che sono state marginalizzate dal mercato dell’impiego, come disoccupati di lunga durata o, di recente, migranti. In totale sono circa 300 le persone che in questo modo possono contare su un impiego, anche se a termine. «Lavoriamo con una una trentina di partner locali. Abbiamo appena aperto un secondo atelier in cui vengono integrati anche rifugiati – rileva Marti –. Rimangono da noi circa tre mesi e lavorano cinque mezze giornate alla settimana. Il risultato? Nel nostro laboratorio il clima è migliorato: sentiamo più risate e più musica di prima. È un’esperienza positiva per tutti. E poi c’è qualcosa di estremamente motivante nel pensare che gli eritrei che riparano bici qui stanno contribuendo a migliorare la vita di altri eritrei rimasti in patria».
A mancare all’appello è soprattutto la materia prima. «Abbiamo acquirenti in abbondanza, abbiamo parecchia domanda e abbastanza partner, qui come in Africa. Per contro non abbiamo mai abbastanza biciclette da riparare». In Svizzera ci sarebbero circa un milione di bici inutilizzate. Solo 500 sono raccolte ogni anno. La buona notizia? Si può migliorare.