La vicepresidente per la prima volta data vincente da un sondaggio attendibile in tre ‘swing states’. Ma l’entusiasmo per il ticket dem non deve illudere
I ‘joyful warriors’ contro l’‘angry man’. Per vincere, il team Harris-Walz punta su un registro inedito: infondere gioia e speranza a un Paese incattivito dalla violenza, le menzogne e la volgarità del trumpismo. La scelta sembra sortire significativi effetti: per la prima volta dalla sua entrata in campo, Kamala Harris è data vincente da un sondaggio attendibile in tre Stati chiave, quegli ‘swing states’ da cui dipenderà l’esito delle presidenziali: Michigan, Wisconsin, Pennsylvania.
Il netto trend favorevole al ticket democratico ha fatto sbroccare l’ex presidente e candidato repubblicano che ha riversato un florilegio di improperi su “Kamala la folle” e sul suo vice “comunista” che condurrebbero l’America verso il cataclisma: frontiere spalancate ai criminali del mondo intero, bimbi uccisi alla nascita, tasse alle stelle. Nulla di nuovo nella farneticazione, ma la rabbiosa reazione di Trump è termometro della sua (momentanea) debolezza.
Kamala Harris fa spallucce quando sente dire dal suo avversario che lei “non è sufficientemente intelligente per indire una conferenza stampa”, Tim Walz con raffinata punzecchiatura si limita a definire il tycoon un tipo “weird”, bizzarro, epiteto che ha singolarmente subito attecchito tra il pubblico, sorta di inaspettato marchio di fabbrica elettorale. Questione di stile, parola d’ordine: non scendere nell’immondezzaio degli insulti, alzare il dibattito, fornire una visione positiva e serena.
Proponendo agli americani il nome – fino ad allora ignoto ai più – del governatore del Minnesota come suo vice, Kamala Harris ha lanciato un doppio messaggio agli elettori: quello di un team che rappresenta anche il mondo rurale e operaio del Midwest e quello di un’impostazione chiaramente progressista. Il primo impatto è indubbiamente stato un notevole successo: giovani in coda per ore e ore per assistere a meeting che ricordano, per l’entusiasmo che suscitano, quelli di Barack Obama nel 2008. Tim Walz è credibile: ha già approntato misure ‘liberal’ nel suo Stato: diritto all’aborto, mensa gratuita nelle scuole pubbliche, robusti congedi malattia.
Passerà un messaggio progressista in un Paese che negli ultimi decenni si è messo su un piano inclinato tale da fare sembrare i vecchi presidenti repubblicani Eisenhower (forte tassazione per i ‘Paperoni’) o Nixon (Ente per la protezione dell’ambiente) dei rivoluzionari? L’onda lunga del reaganismo e del radicalismo dei Tea Party si sta esaurendo? In che misura la politica estera, con la forte contestazione negli atenei sulla spinosa questione Gaza, svolgerà un ruolo nella scelta degli elettori? Trump rivendica la sua love story con Netanyahu, la Harris è critica, non lo ama di certo, ma il tema è tabù considerando l’influenza dei gruppi di pressione sulla campagna elettorale.
La Kamalamania è dunque sbocciata ma non deve illudere: riguarda al momento una minoranza di americani, giovani per di più, angosciati dalla prospettiva di ritrovarsi con Trump alla Casa Bianca, insoddisfatti dalla moderatezza di Joe Biden, simpatizzanti degli ‘enfants terribles’ del Partito democratico, Elizabeth Warren o Bernie Sanders. Con Harris e Walz timone a sinistra, anche se non a sinistra tutta. Sapremo in novembre se l’America è ora pronta ad abbracciare una politica più sociale, solidale e inclusiva, in sintonia con un passato, in particolare quello degli anni 60, che oggi appare come preistoria.