Vince un’idea evocativa di lotta anti-fascista prima ancora che un progetto politico che non poteva avere il tempo di essere più elaborato e condiviso
Passione repubblicana. Quella che ieri in Francia ha fatto da diga contro la marea nera, contro l’idea di un’ultra-destra irresistibile, contro la rassegnata convinzione che il Paese si sarebbe infine consegnato agli eredi di Vichy imbellettati di un superficiale se non falso trasformismo, di cui il suo nuovo leader, Jordan Bardella, creatura politica della Le Pen, è l’inamidata rappresentazione.
Passione repubblicana. Da qui bisogna infatti e assolutamente riprendere il racconto di un voto che per la seconda volta in meno di un mese ha terremotato Parigi. Ma stavolta in uno scossone di moto opposto, solo sperato, imprevisto e infine liberatorio rispetto a quello che il 9 giugno (voto europeo) la rabbia sembrava aver definitivamente assestato ai valori della Repubblica. Il Rassemblement National per cui apertamente, da Mosca, tifava Vladimir Putin viene ricacciato in terza posizione, lontano sia da Palazzo Matignon, sede del primo ministro francese, sia, per ora, dal cancello dell’Eliseo.
Vince il Nuovo Fronte Popolare, che si piazza al primo e al secondo posto della graduatoria, rispettivamente con la France Insoumise del tribuno Mélenchon e del neo-socialista Glucksmann. Vince un’idea evocativa di lotta anti-fascista prima ancora che un progetto politico che non poteva avere il tempo (in sole tre settimane) di essere più elaborato, condiviso e lineare. Vince la sinistra. Quella ‘gauche’ tormentata, a lungo disorientata, follemente auto-distruttiva, progressivamente polverizzata da una stagione politica che sembrava averne sancito un lento inesorabile tramonto per lasciar posto a una “cosa” centrista senza anima ma capace sette anni fa di sbriciolare, con l’arrivo trionfale di Emmanuel Macron all’Eliseo, i partiti tradizionali di destra moderata e di sinistra riformista su cui si basava la Quinta Repubblica voluta oltre mezzo secolo fa da de Gaulle per garantire la governabilità della nazione.
Macron, co-responsabile e al tempo stesso vittima. Ha voluto questo ricorso alle urne, dai più denunciato come il frutto di un azzardo da orgoglio personale ferito dopo la batosta della sua precaria maggioranza nell’appuntamento europeo. Ha vinto e non vinto. Spezza la logica dell’avanzata lepenista che aveva più che inquietato l’Unione Europea. Ma ne subisce anche le conseguenze, bersagliato com’è anche dal vincitore Mélenchon come la principale causa del malessere francese, presuntuoso figlio di un liberismo che il più giovane capo di Stato nella storia della Quinta Repubblica non ha saputo e voluto ammorbidire con quella dose di politica sociale che aveva solennemente promesso al momento della rielezione presidenziale di due anni fa.
Certo, il ribaltamento francese è tutt’altro che la facile e serena anticamera a soluzioni rapide e condivise. Non basta il pericolo scampato per rimettere le cose in ordine. Anzi, la soddisfazione per la tenuta del ‘barrage’ contro l’iper-destra è subito affiancata dalla consapevolezza di quanto sarà arduo un comune progetto di governo della sinistra vittoriosa. Una cosa sono le urne. Ben altra cosa è l’unità di intenti, e quella operativa. Nessuna delle componenti della sinistra ha il netto sopravvento sull’altra e troppe sono le fratture. Ma potranno davvero disattendere, anzi tradire clamorosamente, il mandato che la maggioranza relativa dei francesi, rispondendo a un urgente drammatico appello politico, ha inciso ieri sulla storia della Quinta Repubblica? Se ne assumano la responsabilità storica. Un’altra occasione potrebbe anche non più presentarsi. La passione repubblicana non è eterna.