laR+ IL COMMENTO

Dal Consiglio degli Stati una ‘Dichiarazione’ irresponsabile

La Camera dei Cantoni vuole che la Svizzera non dia seguito alla recente sentenza della Cedu su clima e diritti umani: un segnale sconsiderato

In sintesi:
  • Sollevare un polverone con una spettacolare Dichiarazione non servirà a niente, all’atto pratico
  • È anche grazie alla giurisprudenza evolutiva della Corte Edu se in Europa negli ultimi decenni sono stati compiuti enormi progressi in materia di diritti fondamentali
Rita Schirmer-Braun, dell’associazione ‘Anziane per il clima’, segue il dibattito dalla tribuna del Consiglio degli Stati
(Keystone)
6 giugno 2024
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La chiamano ‘Chambre de réflexion’. E non è che i suoi membri – i consiglieri agli Stati – non riflettano. Quantomeno parlano, parlano. Portando perlopiù argomenti solidi, attenendosi quasi sempre ai fatti, sforzandosi di ascoltare i pareri degli altri. A volte però si fanno prendere la mano. Si avventurano in lunghe divagazioni giuridico-filosofiche, non di rado inaccessibili ai più. Tanto compresi nel loro ruolo (doppio per molti di loro, visto che sono pure avvocati o professori di diritto), da incartarsi. E da perdere di vista l’essenziale.

La riprova l’abbiamo avuta ieri. Il Consiglio degli Stati ha adottato (38 voti a 11 e 2 astensioni) una ‘Dichiarazione’ sulla sentenza con la quale il 9 aprile la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu) ha condannato la Svizzera per non aver fatto abbastanza – in materia di politica climatica – per proteggere la salute della popolazione, degli anziani in particolare. Il documento, non vincolante, invita il Consiglio federale a far sapere al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che non si vede “alcuna ragione per dare ulteriore seguito” al verdetto. In altre parole: la Svizzera soddisfa già i requisiti richiesti. Mercoledì prossimo il Consiglio nazionale approverà con ogni probabilità una Dichiarazione identica, o quasi.

«La sentenza è sbagliata e mina la credibilità della Corte Edu», ha affermato Daniel Jositsch (Ps/Zh). Il ragionamento è questo: compito dei tribunali è di interpretare il diritto e controllare che venga applicato in modo corretto, non di svilupparlo. Non spetta ai 17 giudici di Strasburgo fare politica, immischiarsi negli affari di uno Stato sovrano, dettandogli la politica climatica da seguire. Altrimenti un Parlamento cosa ci sta a fare?

Competenze oltrepassate? Sentenza politica? Potremmo disquisire all’infinito. Nemmeno gli esperti, o presunti tali, la pensano tutti allo stesso modo. Per cui chiudiamola qui. Con le parole di Niccolò Raselli, ex giudice al Tribunale federale: “Una sentenza che chiama la politica ad agire non è una sentenza ‘politica’, se poggia su una base legale”.

Il punto è un altro. Questa sentenza – come tutte, del resto – è commentabile e criticabile fin che si vuole. I giudici non sono infallibili. E quando si addentrano in terreni inesplorati, il rischio di mettere il piede in fallo è ancor più grande. In questo caso, per giunta, non hanno tenuto conto della nuova legge sul CO2, che il Parlamento avrebbe approvato di lì a poco.

Nelle 258 pagine che hanno redatto, i giudici di Strasburgo però soppesano e sviscerano tutti gli argomenti in gioco. Entrano nel merito anche di quelli contrari. Il verdetto è sì vincolante, ma alla Svizzera non viene imposto alcunché di specifico: la Corte lascia alla Confederazione una libertà pressoché totale sulle misure da adottare, limitandosi a suggerirne alcune (tutt’altro che incisive, peraltro).

Sollevare un polverone con una spettacolare Dichiarazione non servirà a niente, all’atto pratico. Alla Svizzera la sentenza non piace? Farà quel che ha sempre fatto in passato in casi simili, come conviene a un Paese che ha una lunga tradizione di rispetto delle sentenze Cedu: nei prossimi mesi manderà qualcuno a Strasburgo a illustrare, con dovizia di dettagli, tutto ciò che è stato fatto e che si intende fare per proteggere la salute della popolazione – e degli anziani in particolare – dagli effetti del cambiamento climatico. E magari il discreto emissario porterà in valigia anche la famosa Dichiarazione.

Se fosse solo inutile, non sarebbe un problema. Il fatto è che una simile presa di posizione provoca contraccolpi sul piano politico. In Svizzera la destra è già tornata a sparare sui ‘giudici stranieri’ (di quale Corte, poco importa) e sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E una Dichiarazione ufficiale proveniente da un Paese ‘modello’ come la Svizzera non potrà che delegittimare i giudici di Strasburgo, soprattutto agli occhi di altri Stati meno democratici. Inoltre: che messaggio si manda alle persone che si ritengono vittime di una violazione dei diritti fondamentali, per le quali la Corte Edu – che non ha potere sanzionatorio, e la cui efficacia dipende perciò dal grado di accettazione ‘politica’ da parte degli Stati che hanno ratificato la Convenzione – resta l’ultima spiaggia per ottenere quella giustizia negata loro dai tribunali nazionali? Il ‘senatore’ Mathias Zopfi (Verdi/Gl) ha colto nel segno: «Non dovremmo pensare solo a ciò che dobbiamo dire, ma anche a ciò che viene capito».

È anche grazie alla giurisprudenza evolutiva della Corte Edu – ovvero la sua interpretazione della Convenzione quale ‘strumento vivente’ – se negli ultimi decenni in Europa l’omosessualità è stata decriminalizzata, o se una donna nubile col suo neonato oggi ha il diritto di chiamarsi ‘famiglia’. Oppure ancora: se nella stessa Svizzera (sentenza Belilos, 1988) ogni caso viene giudicato da un tribunale indipendente e imparziale e non solo da un’autorità amministrativa, la cui indipendenza non può essere costantemente garantita (oggi pare scontato, ma non è sempre stato così).

Al Consiglio degli Stati, dopo la sentenza Belilos, una mozione che chiedeva di disdire la Cedu venne respinta con due soli voti di scarto. In aula, la consigliera federale Elisabeth Kopp fece questa riflessione: «Immaginate quale segnale negativo verrebbe inviato all’intera Europa. Non ci si baserebbe sulle ragioni qui esposte, ma verrebbe interpretato come se la Svizzera non volesse più rispettare i diritti umani, come se non fosse solidale con gli altri Stati che hanno firmato questa dichiarazione. Questo ‘effetto segnale’ non possiamo e non dobbiamo permettercelo in questo momento».

Nemmeno oggi possiamo e dobbiamo permettercelo. La Dichiarazione del Consiglio degli Stati non è solo giuridicamente fuori luogo, è pure un gesto sconsiderato sul piano politico: un segnale irresponsabile. Sintomo di poca scaltrezza, per giunta: perché regala visibilità a una sentenza la cui portata tutto sommato non va esagerata.

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