Ripetere che ‘non tutti gli uomini sono così’ e dare la colpa ai ‘raptus’ non risolve il problema dei femminicidi, bensì offusca dinamiche più radicate
C’è qualcosa di quasi pavloviano nella reazione di una larga fetta della galassia maschile di fronte all’ennesimo femminicidio a poca distanza da noi. Quello di scattare subito col ditino in alto a dire che no, non tutti gli uomini “sono così”. Quel #notallmen che, di fronte all’evidenza di un radicamento culturale del maschilismo e della violenza verso le donne, suona ormai più come un’autoassoluzione, peggio, come un’excusatio non petita. Seguita, molto di frequente, dall’urgenza di rimarcare che ci sono anche uomini vittima di violenza (quanti, poi, in paragone?) da parte delle donne.
Tutto giusto. Peccato che la foga di smarcarsi e di derubricare femminicidi e violenze a gesti individuali, o peggio, negarne le caratteristiche peculiari dal punto di vista vittimologico, sia essa stessa parte del problema. Perché parlare di dieci, cento “raptus di follia” da parte di altrettante mele marce che, sacrilegio, macchiano l’onore del sacro e intoccabile genere maschile depositario della sacra missione della protezione paterna(listica) nei confronti del sesso “debole” è, a esser buoni, quanto meno miope. Basterebbe, come nell’enigmistica, unire i puntini per rendersi conto che essi non sono altro che i nodi visibili di un tessuto culturale solido, diffuso in modo capillare, in cui la relazione uomo-donna è concepita in termine di potere, di possesso assoluto ed esclusivo.
Quello stesso sistema che, fino a tempi abbastanza recenti, concepiva “l’onore” come un’attenuante per i delitti verso le donne e il “matrimonio riparatore” come sanatoria dello stupro. Una rete in cui, piaccia o meno ammetterlo, ci siamo dentro tutti in quanto uomini, perché a tutti noi è capitato di sentirci dire, fra le tante porcherie, che “l’uomo è cacciatore, la donna è preda”. E tutti noi abbiamo reagito almeno una volta allo stesso modo: col silenzio, se non con risatine complici. Salvo poi, quando, in quanto uomini, si è presi in causa di fronte all’ennesimo femminicidio, ribadire pilatescamente che “non tutti gli uomini uccidono le donne”. E qui stiamo parlando solo dei femminicidi, senza andare a scoperchiare l'immenso buco nero delle molestie e delle aggressioni sessuali che sono comunque manifestazioni della medesima mentalità forgiata (e mi si passi il termine un po' mainstream) sulla mascolinità tossica e della prevaricazione dell'uomo sulla donna.
Nessuno chiede un processo all'intero genere maschile, al di là delle baggianate retoriche da social network. Sappiamo tutti, e non serve ripeterlo col ditino alzato e l'aria offesa, che non tutti gli uomini uccidono le donne. Ma quelli che lo fanno, piaccia o meno, agiscono nel contesto del proprio ruolo, presente o passato, di mariti, fidanzati, partner: in quanto uomini, insomma, allo stesso modo in cui le vittime diventano tali semplicemente in quanto donne, e in particolare donne che si sottraggono, o provano a farlo, alle dinamiche di potere e possesso tramandate dalla cultura del maschio dominante.
Cultura che si fa fatica non solo a contrastare, ma spesso anche a riconoscere come tale. Anni fa, di un giovane delle mie parti che uccise l’ex fidanzata 21enne per poi suicidarsi fu scritto “un bravo ragazzo, di una famiglia perbene, sarà stato un raptus di follia”. Perché questo sistema distorto di valori impone a tutti i costi di trovare a gesti simili una scusante patologica, per non ammettere un’evidenza scomoda: che la violenza sulle donne è una piaga che attraversa verticalmente ogni classe sociale. E che anche i “bravi ragazzi”, di fronte a un no, possono uccidere.