Tutta l’umanità degli esseri umani, richiamata dal grande direttore di orchestra, sembra essere stata riassunta nel gesto della 85enne Lisfshitz
Yocheved non è un nome qualsiasi nella tradizione ebraica. Il libro dell’Esodo, nella Bibbia, racconta che Yocheved (o Iocheved), moglie di Amran, fu madre di tre bambini: Miriam, Aronne e Mosè. Quando il piccolo Mosè aveva tre mesi, la donna lo chiuse in una cesta cosparsa con del bitume e lo abbandonò alla corrente del fiume Nilo per salvarlo dalla collera del faraone egiziano. Per suo figlio voleva la pace, non la morte. La leggenda narra che il piccolo venne trovato dalla principessa Bithia e affidato alla stessa Yocheved come nutrice, su consiglio della sorella di Mosè, Miriam, che aveva seguito la cesta lungo il corso del fiume. Dopo essere stato svezzato, il bambino venne ricondotto dalla figlia del faraone che lo adottò come proprio figlio. Già in età adulta Mosè scoprì le sue vere origini, incontrò Dio nel deserto e diventò il suo inviato, negoziando con il faraone la fine della schiavitù del popolo d’Israele in Egitto. Mosè vagò nel deserto durante quarant’anni insieme al suo popolo: morì prima di entrare nella terra di Canaan. Terra “promessa” che le dodici tribù israelite trovarono occupata al loro rientro dall’Egitto e che conquistarono attraverso la guerra. Per poi essere sconfitte e deportate nell’anno 586 a.C. dai Babilonesi. Per poi ritornare nel 1948, dopo secoli di diaspora, per creare lo Stato ebraico in Palestina, sotto il falso presupposto – avallato dalla comunità internazionale a seguito dell’Olocausto – di dare “a un popolo senza terra una terra senza popolo”.
Anche un’altra Yocheved, Yocheved Lisfshitz, vuole la pace. L’ha voluta durante tutta la sua vita. La desidera talmente tanto che perfino all’inizio di questa settimana, quando è stata liberata dopo 17 giorni vissuti nei tunnel sotto Gaza in ostaggio di Hamas, nel preciso istante in cui gli operatori della Croce Rossa la stavano portando in salvo, ha voluto tornare sui suoi passi per stringere la mano a uno dei suoi sequestratori e dirgli “shalom” (che vuol dire ciao, ma anche pace). Non una volta, bensì tre: pace, pace, pace.
“Ogni singola persona può fare la differenza e trasmettere qualcosa”, ha scritto di recente il grande maestro Daniel Barenboim, cittadino israeliano e palestinese, in una lettera pubblicata su Repubblica. Come se si fosse messo d’accordo con la 85enne Lisfshitz per suonare insieme lo stesso brano, Barenboim afferma che “il nostro messaggio di pace deve risuonare più forte che mai”, perché alla base “ci sono esseri umani da entrambe le parti e il riconoscimento di questa verità, da entrambe le parti, è l’unica via”. Tutta l’umanità degli esseri umani, richiamata da Barenboim, sembra infatti essere stata riassunta nel gesto di Yocheved Lisfshitz.
Nella sua lettera, Barenboim si sofferma poi sul paradosso di un conflitto “profondamente umano tra due popoli che hanno conosciuto la sofferenza e la persecuzione” e ribadisce un concetto fondamentale: “Gli israeliani avranno sicurezza quando i palestinesi potranno provare speranza, cioè giustizia”.
In una recente intervista concessa a laRegione, lo scrittore Etgar Keret ci diceva che “c’è un’esistenza oltre a uccidere e farsi uccidere”. Come dargli torto, dopo aver visto ciò di cui è stata capace una semplice anziana chiamata Yocheved (non un nome qualsiasi).