I problemi dei socialisti non sono nati ora, ma hanno radici più profonde. Per uscirne, serve un'autocritica seria. Partendo dall'ammettere di aver perso
Il Partito socialista deve ricollegarsi al più presto con la realtà sia per il suo bene, sia per quello di una democrazia rappresentativa che, con una sinistra debole e numericamente ininfluente, non ha per forza di cose gli ingranaggi che viaggiano a pieno regime.
La difficoltà nel dire due semplici parole, cioè ‘abbiamo perso’, mostra che l’autocritica, l’ormai celebre ‘analisi della sconfitta’ e le riflessioni che il Ps metterà in atto devono andare ben al di là delle rassicurazioni sul progetto a lungo termine con i Verdi e della soddisfazione di aver portato in governo Marina Carobbio. Che, senza girarci attorno più di quel tanto e lasciando da parte la poesia, è entrata in Consiglio di Stato il giorno in cui con un comunicato stampa ha informato di essersi messa a disposizione. Tutto il resto è un corollario che ha interessato più le segreterie dell’elettorato, se inteso nella sua globalità.
Perché potrà essere vero ciò che intende la copresidente Laura Riget quando dice che all’interno della base si è percepito entusiasmo per la lista ‘Socialisti e Verdi’, ma in tempi dove la scheda secca è scelta da sempre meno persone bisogna parlare anche al resto delle sensibilità – che sono maggioritarie – del cantone. Non è stato fatto. E se nell’analisi del risultato negativo – che è sembrata, anche ad alcuni presenti ieri sera al Comitato cantonale, una mezza arrampicata sui vetri – viene rispolverato l’adagio tanto caro alla destra che ‘è colpa dei media’, come fatto da Riget, viene da chiedere alla sentinella a che punto sia la notte.
I problemi del Ps non nascono dal risultato di queste elezioni cantonali, che è solo la cartina di tornasole di un problema che ha radici ben più profonde. Il ricollegarsi a una realtà che ultimamente è parsa davvero sfuggire di mano – e non parliamo solo della asserita competizione interna in una lista che più blindata di così non poteva essere – passa anche dall’interpretare segnali grandi come una casa ma alle volte sottovalutati. Sul ‘Decreto Morisoli’, ad esempio, è stata ingaggiata una sorta di battaglia di religione che a sinistra avrà infiammato gli animi, ma nella quale la stessa sinistra ha tradotto le ben 10’028 firme raccolte per il referendum in una batosta che, con il 57% di sì e un’affluenza balneare, quel ‘Decreto Morisoli’ l’ha vidimato con l’inchiostro indelebile.
O ancora, la newsletter inviata a iscritti e militanti con cui sul finire di gennaio, in merito alle raccolte firme per contrastare la deduzione d’imposta di 1’200 franchi per i premi di cassa malati dei figli e per l’iniziativa che chiede di fissare il premio a massimo il 10% del reddito: la copresidenza parlò di “situazione drammatica”, perché quelle firme, poi giunte, non stavano arrivando. Tornare a parlare la stessa lingua di chi ha sempre rappresentato l’elettorato di riferimento della sinistra e che oggi guarda altrove o, peggio, neanche vota più è l’imperativo che deve porsi il Ps.
In più, si diceva, questo risultato non è preoccupante solo per la sinistra, ma anche per il sistema paese nella sua interezza. Il lavoro commissionale, fatto di compromessi, dialogo, discussioni a volte infinite e snervanti ma necessarie, è alla base di dossier il più possibile condivisi. Dove ognuno prova a mettere il proprio mattone, grande o piccolo che sia. Un indebolimento dell’area di sinistra rende più difficile anche al centrodestra un confronto essenziale, perché il pericolo dietro l’angolo è l’autoreferenzialità. Il cui prezzo principale non lo pagano questa o quella forza politica, ma i cittadini.