Michel Eltchaninoff ci fornisce preziosi strumenti per contestualizzare le derive violente e bellicistiche di Putin
"Non si tratta unicamente di una guerra condotta a colpi di massacri, ma pure di un conflitto di civiltà": a parlare così è uno dei maggiori conoscitori della cultura politica russa. Michel Eltchaninoff (‘Dans la tête de Vladimir Poutine’, Actes Sud) ci fornisce preziosi strumenti per contestualizzare le derive violente e bellicistiche di Putin. L’ideologia dell’autocrate si iscrive in una corrente di pensiero lunga secoli che considera l’occidentalizzazione del Paese, inaugurata da Pietro il Grande e rafforzatasi con le guerre napoleoniche e il materialismo bolscevico, come il male assoluto.
Tra i diversi mentori del presidente troviamo il ben noto – per le sue frequentazioni negli ambienti dell’estrema destra europea – Aleksandr Dugin ("l’Occidente è l’Anticristo") e soprattutto Ivan Il’in. Il percorso umano e intellettuale di quest’ultimo è illuminante per addentrarsi nella mente di Putin. Il’in, che morì in esilio in Svizzera nel 1954, anticomunista e antibolscevico, fu espulso da Lenin nel 1922 assieme a 160 altri intellettuali nell’operazione nota come "il battello dei filosofi". Affascinato dal fascismo mussoliniano e a tratti dal nazismo, considerava che l’unità del popolo russo fosse minacciata dalla decadenza dei costumi propugnando la rinascita spirituale attraverso una dittatura nazional-patriottico-religiosa del mondo slavo. Ritroviamo l’identica condanna del bolscevismo nel discorso che Putin tenne poco prima dell’aggressione al suo vicino ucraino: Lenin, riconoscendo il diritto all’autodeterminazione dei popoli, avrebbe messo "una bomba nucleare sotto l’Urss". Ecco dunque il ricorso alla mitizzazione e manipolazione della storia ("chi controlla il passato controlla il futuro" ricorda in ‘1984’ di George Orwell il "ministero della Verità"): l’unità dei popoli ucraino e russo sin dai tempi della Rus’ di Kiev nel IX secolo sui quali si fonda, anche per la conversione del principe Vladimir I, la tradizione del cristianesimo ortodosso. Dalla guerra di Crimea del 1856 (in cui la Russia fu sconfitta da una coalizione tra Francia, Inghilterra e impero ottomano) il revanscismo slavofilo e conservatore è rimasto una costante nel pensiero russo.
L’"eurasiatismo" di Putin offre al popolo l’orizzonte di un futuro fittizio di "grandeur", portatore di valori universali, al termine di una "guerra di civiltà" a cui aderisce con convinzione anche il patriarca Kirill. Putin ne aveva d’altronde illustrato i contorni in un celebre discorso tenuto nel 2013 in cui si scagliava contro le derive occidentali con il matrimonio gay, l’esaltazione del femminismo, il politically correct, il materialismo. Proprio pochi giorni fa, ricorda Eltchaninoff in un’intervista a ‘Le Monde’, il capo della Chiesa ortodossa russa aveva sostenuto che la guerra in Ucraina era una «lotta metafisica».
Maidan con le sue rivoluzioni popolari filoeuropee (2004 e 2013-14) è stata considerata dal Cremlino alla stregua di una minaccia mortale. Non è dunque un caso che il suo discorso attecchisca in Occidente negli ambienti dell’estrema destra, o in quella parte della sinistra che ha abbandonato il riferimento alle grandi lotte per i diritti umani, le conquiste dell’illuminismo, o l’autodeterminazione dei popoli: la guerra di Putin è anche uno scontro culturale contro la democrazia che, seppur con tutte le sue imperfezioni, rimane il grande retaggio della storia europea.