Commento

I mafiosi e gli smemorati

La puntata di '60minuti' (Rsi) sulle infiltrazioni del crimine organizzato in Ticino e l'ex pp Stauffer che sminuisce il fenomeno. Incredibile. Vediamo allora di ricordare

17 gennaio 2020
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È un vero peccato che gli autori della puntata di lunedì sera di ‘60 minuti’ (Rsi), dedicata alle infiltrazioni del crimine organizzato in Svizzera, non abbiano allestito e mostrato un elenco delle indagini, dei processi e degli arresti a fini estradizionali che negli ultimi quaranta, quarantacinque anni hanno interessato in Ticino situazioni e persone in (forte) odor di mafia. Sarebbe stato un importante e utile esercizio di memoria. Che nel dibattito in studio, seguito all’intervista al magistrato italiano Alessandra Dolci, avrebbe forse evitato all’avvocato luganese Emanuele Stauffer, già procuratore pubblico e aspirante procuratore generale, di sostenere, fra l’altro, che “se veramente avessimo un’emergenza criminale di questa natura, penso che qualche condanna e qualche inchiesta concreta le avremmo viste”. Invece le abbiamo viste, e non poche, come racconta la storia giudiziaria di questo cantone, anche attraverso i resoconti giornalistici (contrariamente a ciò che ha asserito il consigliere nazionale Marco Romano, i nostri media hanno riferito e riferiscono ampiamente del fenomeno mafia).

Se guardiamo al passato, meno e più recente, in Ticino, vuoi per la sua posizione geografica, vuoi per i suoi collaudati servizi finanziari, hanno operato soggetti legati a tutte le principali organizzazioni di stampo mafioso: Cosa Nostra, Camorra, ’Ndrangheta, Sacra corona unita. Insomma, non ci siamo fatti mancare nulla. Lo attestano indagini e processi, che hanno portato anche a modifiche legislative di peso, per esempio quella che ha introdotto nel Codice penale svizzero l’articolo sul riciclaggio di denaro. Parlavamo di processi. Come quello sulla ‘Pizza connection’ (erano gli anni Ottanta). O quello (era il 2003) nei confronti del titolare di uno studio legale in centro a Lugano: di origini calabresi, da tempo trapiantato in Svizzera, era accusato di aver candeggiato per conto di Cosa Nostra e della ’Ndrangheta, segnatamente delle cosche radicate nel Nord Italia, almeno 75 miliardi delle vecchie lire: il primo caso nel quale una Corte svizzera, nella fattispecie ticinese, ha applicato il 260ter, l’articolo del Codice penale sull’organizzazione criminale. Un verdetto confermato dal Tribunale federale. Senza dimenticare le condanne inflitte nel 2017 dal Tribunale penale federale a un 63enne italiano, considerato dagli inquirenti una sorta di banchiere della ’Ndrangheta, e a un ex fiduciario e già municipale di Chiasso. Parlavamo di inchieste giudiziarie. Come quelle sul contrabbando di stupefacenti e armi, con relativa ripulitura dei proventi, da parte delle mafie calabrese e siciliana: indagini quali la ‘Grave’, la ‘Igres’ o la ‘Roscoba’, per citarne alcune.

L’elenco è tutt’altro che esaustivo. Ma quanto citato è sufficiente per ricordare, ancora una volta, che il Ticino non è al riparo dalle infiltrazioni della criminalità organizzata. “La Mafia? Invisibile, ma attiva”, dichiarò nel 2010 in un’intervista alla ‘Regione’ l’allora procuratore federale Pierluigi Pasi. Una mafia che da noi non spara (per ora almeno), per non destare quell’allarme sociale che finirebbe per comprometterne i traffici illeciti. Per contrastarla non basta adeguare l’arsenale giuridico. La cultura investigativa la si apprende investigando. Purché si indaghi. Servono quindi inquirenti (cantonali e federali) – nonché giudici – capaci, tenaci. E ci sono. Le inchieste e i processi menzionati lo dimostrano. Ma è pure necessario, come ha evidenziato a ‘60 minuti’ il capo del Dipartimento istituzioni Norman Gobbi, che gli operatori onesti di settori economici esposti al rischio di infiltrazioni mafiose individuino per tempo e segnalino situazioni sospette. Serve un’azione concertata.