Distruzioni per l'uso

Contro l'empatia (ovvero: il pericoloso effetto-koala)

Sentire l’altrui sofferenza non è necessariamente il modo migliore per orientarsi. Media e politica, a volte, non aiutano.

Gettare acqua sul fuoco delle passioni (Keystone)
11 gennaio 2020
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Parliamo sempre del ruolo della paura in politica, di come induca le persone a comportamenti irrazionali e le renda facilmente manipolabili dal primo Salvini che passa. E proprio alla paura – e all’odio – opponiamo come antidoto l’empatia: la capacità di metterci nei panni degli altri, di ‘sentire’ la loro sofferenza. Di “deficit di empatia”, non a caso, parlava già Barack Obama. Come se il problema fosse contrapporre sentimenti buoni a sentimenti cattivi.

Ma che succede se a soffrire è qualcuno che troviamo ripugnante? Oppure se il dolore di uno solo – il classico bambino nel pozzo da tivù del dolore – ci distoglie dal provare alcunché per quei sofferenti che sono troppi e troppo lontani per ‘sentirli’? Per molto tempo ho pensato che i miei dubbi fossero solo il risultato di un certo cinismo, tanto più che a fare questo mestiere ci si assuefà a mille disgrazie. Poi, ultimamente, mi sono imbattuto in un lavoro di Paul Bloom, uno psicologo di Yale: ‘Against Empathy’, contro l’empatia. Secondo Bloom, che pesca abbondantemente dalle neuroscienze e le combina con l’analisi sociale e politica, l’empatia ci induce a fare scelte sbagliate: a preferire la reazione prossima e immediata a soluzioni più ampie e di lungo termine; a ingigantire un caso e ignorarne mille altri; perfino a odiare, paradossalmente, come sa bene chi sbatte in prima pagina una donna stuprata da un immigrato per fomentare con l’immedesimazione l’odio xenofobo. “La deliberazione morale dev’essere da qualche parte nel cervello, non nello stomaco”.

Lacrime di coccodrillo

Ci ho ripensato questa settimana, osservando lo sgomento collettivo per i koala australiani ustionati dagli incendi. Non ho nulla contro i koala (spero che la cosa sia reciproca) e non mi interessa giudicare chi si commuove, provando un sentimento che può essere tutto sommato naturale. Né voglio cadere nell’autocompiacimento di chi ribatte ‘e allora il bimbo morto nel carrello di un aereo?’. Noto semmai come in entrambi i casi – koala e bambini – troppi media tendano a sfruttare gli stessi meccanismi emotivi. E se l’equivalenza fra un koala e un bambino vi fa indignare, sappiate che non indigna affatto chi li strumentalizza per un click, o per un voto.

La strategia – pericolosamente trasversale e diffusa – è quella di incassare i dividendi di una reazione immediata, e poi passare ad altro. Così, ad esempio, una narrazione melodrammatica che oppone i poveri koala a presunti “piromani” induce a indignarsi subito, ma non a riflettere in modo informato su un fenomeno molto più ampio e complesso: che ha anzitutto a che fare col cambiamento climatico, col ruolo dei venti e dei fulmini molto più che dei piromani, con la tendenza stessa del bush australiano a rigenerarsi attraverso il fuoco. Sicché si versa una lacrima, certo, ma poi si passa ad altro. Idem con la storia del bimbo ivoriano che si era nascosto nel carrello di un volo Air France: si può fare bassa letteratura evocando “quel bimbo senza carezze, congelato”, “un cadavere, un piccolo cadavere”, ed esortare a “immaginarvi voi stessi a dieci, dodici anni”. Tutta questa empatia ci farà forse sentire buoni e sensibili, ma non ci spinge all’azione; va bene per immedesimarsi in Anna Karenina, non per fermare il treno che la travolgerà. 

Vulcaniani

Ora: è chiaro che queste dinamiche sono ingigantite dalle camere d’eco dei social, ce lo diciamo da anni. Ma è anzitutto nelle redazioni dei media tradizionali e nelle stanze della propaganda politica che nasce questo modo di presentare la realtà. A volte succede per calcolo, altre perché la nostra stessa natura è così da milioni di anni, ma molto più spesso per sciatteria e per insulsi meccanismi d’imitazione.

Nel suo lavoro, Bloom invita piuttosto a sollecitare la ‘compassione razionale’: il dare valore alle difficoltà altrui, il prendersene cura, ma ragionandoci sopra a mente fredda, senza la pretesa di farsi guidare in modo preponderante dai sentimenti. Non si tratta di eliminarli – che fosse impossibile l’aveva già capito Spinoza –, ma di costruire una sorta di geometria delle passioni. Più facile a dirsi che a farsi: “Non siamo i Vulcaniani di Star Trek, guidati dalla pura logica”, nota l’Economist in una recensione; e talora i sentimenti servono a smuovere le persone per cause giuste. In molti casi, però, si esagera.

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