Commento

Quelle storie di Città Vecchia soltanto un distillato

Una chiave di lettura per la polemica attorno al documentario sul nucleo storico di Locarno passato alla Rsi

9 gennaio 2020
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La premessa è che il nome stesso della trasmissione, “Storie”, dovrebbe indurre a giustificare a priori le scelte in base alle quali il regista Paolo Vandoni e la produzione curata da Michael Beltrami hanno costruito “Città Vecchia, vita nuova”, il documentario passato quattro giorni fa alla Rsi e attorno al quale si è scatenato un evitabile tiro al bersaglio.
Almeno, il nutrito plotoncino dei critici ha mirato alla sostanza del lavoro – giudicato troppo parziale rispetto al ben più vivo contesto generale –, salvandone la forma. E, oggettivamente, non poteva essere altrimenti, vista la qualità del prodotto. “Città Vecchia, vita nuova”– titolo non felicissimo, peraltro – è infatti senza alcun dubbio un eccellente esercizio di “non fiction” da cui emergono con forza dei ritratti di natura crepuscolare dei quali tutto si può dire, ma non che non ricalchino alla perfezione l’anima più antica di un nucleo cittadino ormai ridotto a ricordo.

Quelle di Piero Suini, Cipriano Giovanettina, Piero Cattaneo e Mauro Pons sono per l’appunto storie che del quartiere raccontano scampoli in via d’estinzione, e non tutto il quartiere che si sta sviluppando attorno ad essi. Le altre almeno abbozzate – la giovane scrittrice che racconta la sua Città Vecchia (ma deve pur sempre andarsene per trovare lavoro), l’uomo del tè che ha scelto Locarno, il riparatore di bici venuto dalla Germania dell’Est – fanno comunque in parte da contraltare a una certa qual impronta nichilista, e danno respiro all’affresco.

Città Vecchia, lo sappiamo tutti, è molto (e soprattutto) altro rispetto alla versione scelta e descritta dal regista: è il tentativo, talvolta faticoso, di un commercio qualitativo, anche con nuovi insediamenti di carattere giovanile; è animazione, con i mercatini, gli eventi musicali e quelli letterari promossi nel quartiere; è storia ed è cultura, con il castello in via di ridefinizione, il rivellino e Casorella rimessa recentemente a nuovo; ed è anche gestione del territorio e della sua viabilità, come insegna il dibattito che si è generato attorno al Parco Balli, al suo autosilo e al precario equilibrio fra venti di pedonalizzazione e richieste di fruibilità di chi nel nucleo vive e lavora.

Ma questa è la pesca, se vogliamo. Vandoni, per “Storie”, non poteva che estrapolarne un nòcciolo, la cui natura era e deve restare di esclusiva competenza dell’autore; spremendolo, il regista ha distillato alcune gocce di una malinconia che può far male, ma anche altre di quella cosa chiamata poesia e che va sempre oltre ai giudizi di valore.
Il punto è sempre trovare un compromesso accettabile fra intime sensazioni di chi fa (il regista), aspettative di chi fruisce (gli spettatori), richieste di chi produce (la Rsi) e generosità di chi si presta a raccontarsi (i protagonisti). In questo, come in altri casi, nessuno si è risparmiato. L’entusiasmo, la delusione, le proteste e anche i complimenti che ne stanno derivando sono in fondo soltanto altre storie che si raccontano da sé. E ognuna ha ragione di esistere, esattamente come le altre.