Esclusa l’autogestione dall’ex macello, si riattiva l’ennesimo gruppo di lavoro alla caccia di una sede alternativa. Ma si fanno conti senza l’oste
Ci risiamo. Di nuovo al punto di partenza. Come nel gioco dell’oca. Nulla pare cambiato rispetto ai giorni successivi allo sgombero ordinato dal Consiglio di Stato nell’ottobre 2002. Come allora la questione torna d’attualità nell’anno elettorale. Sarà un caso? Fatichiamo a crederlo. In due ore e mezza di dibattito lunedì in Consiglio comunale, si sono sentiti gli stessi discorsi, da una parte e dall’altra, fra sostenitori dell’idea di un centro sociale e chi la combatte puntando il dito contro i “cattivi” che sfruttano il suolo pubblico gratuitamente, ed evoca frasi fatte, tipo “la legge è uguale per tutti”.
Però, quella convenzione firmata due mesi dopo lo sgombero forzato, figlia di una decisione machiavellica, venne sottoscritta dal Consiglio di Stato e dal Municipio e non contempla pigioni.
Dobbiamo nuovamente ribadirlo. Quello spazio, l’ex macello, venne concesso obtorto collo contro la volontà della maggioranza del Consiglio comunale dall’allora sindaco Giorgio Giudici e dal compianto Giuliano Bignasca. Entrambi compresero, dopo due mesi di attività autogestite piuttosto rumorose nelle piazze e nelle strade di Lugano che era meglio individuare e cedere uno spazio, fosse solo per contenere il movimento nella malcelata speranza che si spegnesse col passare del tempo. Eppure, quella scelta era figlia di una consapevolezza che, come prima agli ex Molini Bernasconi di Viganello e, dopo l’incendio doloso, al Maglio sul piano della Stampa, l’esperienza non si poteva sopprimere col manganello.
Nel frattempo, le persone al centro sociale sono cambiate. Seppur spesso orientate politicamente, le proposte riscuotono successo; il Molino viene frequentato da chi di soldi in tasca non ne ha molti, non solo giovani. Dà libero sfogo a un altro modo di concepire il mondo, ma i protagonisti dell’autogestione non sono più quelli di 23 anni fa. Sono poco disposti al confronto. E l’assemblea, sebbene sia un esempio virtuoso di democrazia, decide all’unanimità dei presenti. Si propone aperta, ma di fatto, è chiusa agli estranei non simpatizzanti, figuriamoci ai rappresentanti dei media e ai politici. Il movimento si è radicalizzato chiudendosi viepiù in sé stesso. Questa posizione intransigente non gioca certo a loro favore e a lungo termine è destinata e condurre il movimento su una strada senza uscita. Una strada nella quale (senza saperlo?) si stanno facendo accompagnare dalla politica che lunedì sera li ha cacciati via di lì. E contestare legalmente la disdetta o non rispettarle (passando la palla alla Pretura), servirà solo ad allungare i tempi di un percorso tracciato.
Nonostante tutto, l’esperienza, riconosciuta a parole da tanti politici (non da Lega e Udc) esprime una voce fuori dal coro che ha diritto di cittadinanza e la Lugano città aperta di cui parla con tanto entusiasmo e a ragione il sindaco Marco Borradori dovrebbe includere invece che escludere. Perché escluderla o marginalizzarla al di fuori della realtà urbana non riuscirebbe a farla tacere quella voce che tanti si tappano le orecchie pur di non sentirla. Al contrario potrebbe generare l’effetto opposto: mentre ora è contenuta in quello spazio, fuori da quelle vetuste mura si manifesterebbe più rumorosamente mettendo ancor di più a repentaglio l’ordine pubblico e causando più lavoro alla polizia. Ci vien da pensare che forse a qualcuno fa comodo che sia così.
Ricostituire l’ennesimo gruppo di lavoro chiamato a cercare una sede alternativa e poi proporla a chi non vuole lasciare l’ex macello appare un fatuo quanto al limite del ridicolo esercizio di stile. Sembra uno specchietto per le allodole, tanto per poi dire di averci provato, nonostante l’interlocutore non ne volesse nemmeno sentir parlare. Ciò non porterà a nulla. È evidente che un altro spazio deve andare bene anche all’inquilino, che si trova lì non perché lo ha occupato illegalmente bensì con l’autorizzazione di chi allora rappresentava le istituzioni, altrimenti non cambierà casa. Non servirà a nulla dicevamo se non a portare acqua al mulino di coloro (comunque la maggioranza), che li vogliono lontani dal centro città.
D’altra parte, in questa situazione di stallo che perdura da oltre 16 anni, è comprensibile e legittimo che la città voglia rivitalizzare il sedime, anche se stride l’intento evocato di “restituirlo a tutta la cittadinanza”, come se gli autonomi e i frequentatori non fossero cittadini. L’ex macello è considerato un luogo tanto strategico quanto prezioso. Come se ne esce? Magari tentando di ricominciare la partita con altri dadi, senza preconcetti e facendo i conti con l’oste che non paga l’affitto per scelta politica. Nel frattempo, però, il gioco è oramai ripartito e arriverà ancora alla casella 58 in cui si paga la posta e si deve ricominciare daccapo.