Nella vicenda dei dati rubati e usati a fini politici la questione fondamentale è come i cittadini si formano un'opinione
Dunque Facebook s’è fatta sottrarre i dati di milioni di utenti e non ha detto nulla. Sembra un film già visto. E già vista è pure l’indignazione che serpeggia in questi giorni sulla vicenda. Giustificata, certo, ma mal indirizzata. Perché in questa vicenda, Facebook c’entra sì e no.
Intanto perché, siamo onesti, non si può certo pretendere che un sito si faccia i fatti suoi quando la prima cosa che chiede è: “A cosa stai pensando”. Da quando esiste internet, tutti gli esperti vanno ricordando di mai pubblicare online qualcosa che non si sia pronti a vedere sul giornale o al Tg. Figuriamoci se lo si fa su un sito che dichiaratamente raccoglie informazioni sui gusti dei propri utenti per poi venderle ai propri inserzionisti pubblicitari. Insomma, chi si è visto sottrarre mezza vita (digitale) sbaglierebbe a prendersela unicamente con il social network. Certo, il portale di Mark Zuckerberg non ha protetto a sufficienza la propria banca dati, non ha comunicato in maniera chiara il furto (ammesso che ciò sarebbe servito a parare il colpo) e ha forse anche mentito alla Commissione parlamentare britannica sulla Cultura, i Media e il Digitale. Eppure il rischio che i propri dati finissero in mani interessate non poteva non essere evidente a ogni utente che ha scelto di iscriversi sul social network in blu: e si sapeva di non aver aperto un conto cifrato in banca. Anzi, piuttosto l’esatto opposto.
Ma l’aspetto più inquietante di tutta la questione, quello su cui sarebbe bene iniziare a riflettere seriamente, è il quanto sia facile insinuarsi nelle scelte democratiche di un Paese. Facile come andare a far leva sulla scarsa propensione di alcuni cittadini a verificare le informazioni che ricevono. Colpa di Facebook? No, e neppure della Cambridge Analytica, la società che ha trafugato e usato i dati per scopi di campagna politica. Perché alla fine la scheda nell’urna non l’hanno infilata né una né l’altra società, ma gli utenti-cittadini che – toccati sulle corde giuste – hanno fatto scelte per lo meno non completamente ben informate. Peggio ancora: basandosi su notizie reperite in un luogo dove – tra un micino che miagola “hello” e un cane che cerca di mordersi la coda – nessuno ha l’obbligo di raccontare la verità.
Certo, la manipolazione della comunicazione in politica esisteva ben prima dei social network, ma con l’avvento del tracciamento delle abitudini di massa, gli strateghi che entrano in possesso dei profili psicologici degli elettori possono potenziarla ai massimi livelli, mirando i messaggi là dove sanno che saranno meglio recepiti: ovvero alle credenze preconcette delle persone. Troppo facile, a quel punto, travisare la realtà. Con un buon lavoro, questi stregoni del voto possono pure convincere un utente a farsi garante della veridicità di una notizia falsa.
E allora, invece d’indignarci per essere stati gabbati, invece di inveire contro Facebook perché non ha protetto i dati e ha cercato di nascondere il furto, sarebbe civicamente più utile chiederci come ci formiamo le opinioni e quanto davvero sappiamo di un argomento prima di dire la nostra alle urne. Se la risposta è: “L’ho letto su un sito alternativo e ci credo perché l’hanno condiviso i miei amici”, poi non lamentiamoci con Facebook.