La reazione sguaiata delle sedicenti "avanguardie" progressiste dopo i successi delle destre è sintomo (anche) di un pericoloso élitismo
Poi la finisco, giuro. Ma c’è un corollario alla crisi della sinistra sulla quale ho sermoneggiato l’ultima volta, un corollario che sento di dover affrontare. Mi ero dimenticato di guardare in faccia la questione (cosa direbbe Freud?), ma mi è tornata in mente dopo la batosta elettorale italiana, rileggendo le sguaiate reazioni che io stesso ho inviato ad amici e conoscenti. Il problema: la sinistra – in particolare le sue pretese “avanguardie” e le sue mosche cocchiere – è percepita da un esercito di cittadini come uno sparuto manipolo di snob e di arroganti.
Rileggo i messaggi. “Ignoranti”, “schiavi”, “dementi”: sono solo alcune delle oscenità che mi sono scappate per commentare il plebiscito della Lega e del MoVimento 5 Stelle. Sembro Sgarbi con l’ittero. Alla notizia delle file per reclamare il reddito di cittadinanza promesso dai grillini, prima di annusare la bufala, mi sono perfino sorpreso a pensare un ignominioso “rimpiango Bava Beccaris”. Proprio lui, “il feroce monarchico Bava” dell’omonima canzone. Quello che “una folla che pane chiedeva” la sfamò col piombo, impallinando i moti di Milano del 1898. Santocielo.
Mi vergogno, ma proprio per questo mi pare doveroso parlarne con un modicum di sincerità. Anche perché non credo di essere l’unico che si è fatto scappare simili sconcezze. E va bene la delusione del momento, ma ho l’impressione che la storia cominci da lontano. Non si offendano, i ‘compagni’: non sto dicendo che sono tutti laidi come me. Ma alcuni, sì. Soprattutto, parecchi fra quelli che appartengono alla generazione divenuta politicamente matura (si fa per dire) molto dopo il 1989. E che si è accontentata di annegare in una cinica 'Selbstschadenfreude', parola spocchiosa tanto quanto lo è la sostanza che esprime: un piacere morboso per la propria disgrazia, perché ci permette di ritirarci con comodo nel nostro egoismo privato, incolpando i ‘barbari’, autoassolvendoci pacificamente come sconfitti dalla Storia. Per poi tornare, scuotendo la testa, ai nostri vinili da collezione e ai nostri fine settimana nelle Langhe. “Che roba, Contessa…”
Certo, non siamo i primi (“guarda che D’Alema è nato molto prima di te” mi ha detto un collega premuroso, per cercare di consolarmi). Quel ‘riflusso’ – altro concetto che ha tolto parecchie notti di sonno ai sociologi del Mulino: l’editore, non il centro sociale – iniziò probabilmente in Europa negli anni Settanta, quando la sinistra iniziò a polverizzarsi in gruppetti autoreferenziali. In una scena del suo primo cortometraggio (‘La sconfitta’, 1973), Nanni Moretti si lascia scappare un insolente “ma siamo seri! Ma che ci frega a noi dei desideri delle masse?”. Beccandosi da un militante più ortodosso di lui un sonoro ceffone, lo stesso che continuiamo a prenderci dalle urne.
Poi c’è anche da dire che l’appartenenza di classe è una brutta bestia, e hai voglia a dar retta a Blair e sodali, e ai sogni di quella sinistra ‘cool’ e interclassista che per un periodo abbiamo sposato in tanti (ci permetteva di goderci i nostri privilegi senza dover abiurare). Altrimenti non si spiega perché molti di noi, borghesi progressisti, trattiamo chi supporta Salvini, Di Maio, Trump, Brexit o No Billag come bestie. Perché se anche quel voto fosse davvero l’espressione degli “ultimi” a livello sociale e culturale – e le analisi demografiche mettono in dubbio questa convinzione – non vi è cosa meno di sinistra dell’addossare al singolo individuo le sue sconfitte, imputando a umiliati e offesi la colpa della loro ignoranza: quello è thatcherismo, e fino all’altro giorno stava dall’altra parte.
Semmai si era paternalisti, a sinistra, convinti che fossero le condizioni strutturali a fregare l’individuo, e che stesse a noi rimediare. Pretesa forse pretesca, da laici pescatori di anime. Ma adesso nemmeno quello. Come stigmatizza Andrea Coccia su ‘Linkiesta’, ci comportiamo come “gente che, dopo decenni passati a voler insegnare a leggere agli analfabeti, ora si ritrova ad usare la stessa parola ‘analfabeti’ come insulto per umiliare gli avversari, ritrovandosi più elitista, classista e ogni tanto persino razzista degli avversari populisti”. Inciampiamo sempre sul paradosso di Brecht: se il popolo non approva la linea del partito, bisogna chiedere le dimissioni del popolo.
Certo i brillanti risultati di questo atteggiamento suggeriscono di cambiare urgentemente rotta. Come si diceva alle feste de l’Unità: ripartire dal territorio, dalla base. Ascoltare, anziché credere di sapere già di cos’hanno bisogno gli altri. Ma ora la base sta da un’altra parte, e ci ha detto esplicitamente, in una miriade di elezioni ovunque in Europa, che non vuole seguire il nostro andazzo. Non solo in Italia: non va tanto meglio qui, in Ticino e in Svizzera, e i fenotipi degli sconfitti si assomigliano sinistramente (il gioco di parole è da chiodi, vabbè).
Abbiamo attenuanti: da Marine Le Pen a Beppe Grillo, da Boris Johnson a Donald Trump, la risposta a un disagio così diffuso è una toppa peggiore del buco. E quel che costoro possono fare, nei casi di vittoria, colpirà soprattutto le classi subalterne: quando il protezionismo, il nazionalismo e la retorica razzista apriranno le loro crepe nella società e nell’economia, saremo noi privilegiati a poterci levare di torno prima che sia troppo tardi.
Dopodiché mi rendo conto che manca una pars construens, a tutto questo. La tentazione è quella di buttarla sul crepuscolare: dire che ormai gente come me è troppo corrotta per proporre una soluzione, invocare l’intervento delle nuove generazioni, crogiolarmi in qualche poesia di Gozzano (“non amo che le rose che non colsi / non amo che le cose che potevano essere e non sono state”…). Solo che non ho ancora ottant’anni.