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‘Spesso s'indigna chi rappresenta interessi dei veri violenti’

Le riflessioni dell’antropologo culturale Staid sull’autogestione: ‘Spazi dove chi è ai margini può accedere a servizi e attività di solito preclusi’

In sintesi:
  • Cene con prodotti biologici del territorio, proiezioni di film, spettacoli teatrali, concerti, allenamenti in palestra: offerte che venivano proposte anche dal Centro sociale il Molino
  • L’esperienza di queste realtà non si limita a occupare luoghi abbandonati, ma entra nel vivo della creazione di legami di mutuo sostegno e solidarietà
  • Resistere a uno sgombero è un atto di forza, certo, ma la vera violenza è quella che colpisce i corpi, è la violenza di genere, è quella che calpesta le persone migranti
Scatti dal Centro sociale il Molino
(B.B./Ti-Press)
29 novembre 2024
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Sono spazi che alcuni si figurano come zone franche senza legge occupate da qualche sfaccendato irrispettoso delle più basilari regole di civiltà e convivenza. Da parte di altri invece – che li hanno frequentati, animati oppure che, come il professore di antropologia culturale Andrea Staid, li hanno studiati – vengono concepiti quali «luoghi di opportunità per scambiare saperi pratici oltre che intellettuali, disattendendo l’idea di una società sempre più individualista e monoculturale che ci vede capaci solamente di fare quello per cui siamo pagati. Luoghi, anche, dove coloro che da tale società sono relegati ai margini hanno la possibilità di emergere grazie all’accesso a servizi e attività che generalmente vengono loro preclusi». Cene con prodotti biologici del territorio, proiezioni di film, spettacoli teatrali e concerti di svariato genere, allenamenti in palestra, atelier di serigrafia, corsi di lingua, animazioni per bambini – tutto gratuito o a prezzo molto basso o libero – sono una parte delle offerte che accomunano i molteplici spazi in questione, ovvero contraddistinti da esperienze di autogestione sociale, che Staid ha indagato in Europa. Offerte che venivano proposte anche dal Centro sociale il Molino a Lugano, abbattuto a maggio 2021 in circostanze che un’inchiesta in corso deve ancora chiarire e che la scorsa settimana è tornato oggetto di dibattito in Gran Consiglio a seguito di una mozione Udc – infine bocciata – che chiedeva di estendere le competenze sulla “questione autogestione” dalla Città al Cantone.

Un welfare costruito dal basso

«In Ticino la situazione socioeconomica è sicuramente diversa da quella degli abitanti delle periferie di Roma o Palermo, ma anche in Svizzera ci sono persone in condizione di povertà, e in particolare alcune fasce di popolazione migrante hanno grossi problemi legati alla marginalità. Questi spazi sono proprio pensati per dar loro la possibilità di accedere a una vita comunitaria degna grazie a una sorta di welfare costruito dal basso – considera Staid –. Quello che non fa lo Stato, lo si fa assieme, e diventa un diritto per tutti, non solo per chi se lo può permettere». Ci sono realtà studiate dal ricercatore che hanno integrato ad esempio anche ambulatori medici, sportelli legali, corsi di danza-terapia avvalendosi delle competenze di professionisti, sempre in modalità autogestita. Insomma, osserva Staid, l’esperienza dell’autogestione «non si limita a occupare luoghi abbandonati, ma entra nel vivo della creazione di legami di mutuo sostegno e solidarietà in cui lo spazio si trasforma in un ripensamento del modo di abitare la città contemporanea. Una città sempre più atomizzata che si ripiega in luoghi esclusivi ed escludenti a scapito della socialità, invisibilizzando le ingiustizie quotidiane».

Approccio alla sicurezza ribaltato

Grazie al proprio lavoro di ricerca antropologica, Staid ha potuto osservare dei parallelismi tra realtà apparentemente lontane: «Se guardiamo alla risignificazione dello spazio abitato dal punto di vista autogestionario e al modo in cui vivono le persone a determinate latitudini o a come abbiamo vissuto per molto tempo nella società contadina, notiamo delle analogie innanzitutto per quanto riguarda un certo rifiuto della proprietà privata a favore di un processo collettivo dell’abitare. A Barcellona, all’Espacio del Inmigrante, dai racconti delle persone che vi sono approdate e con cui ho potuto parlare emergeva spesso un parallelismo tra quel luogo e le loro case native trattandosi non di costrizioni verso l’interno, ma di spazi di apertura comunitari fondati sulle relazioni tra le persone e sul sentimento di sicurezza che queste relazioni infondono». Il concetto di sicurezza si trova dunque ribaltato rispetto a quello fatto di chiavistelli, inferriate e cancelli a cui siamo abituati, forse perché, ipotizza Staid, «non ci riconosciamo nella comunità in cui viviamo e temiamo ciò che si colloca fuori dal nostro nucleo familiare. Per altre culture invece la sicurezza è data dall’aiuto che il vicino può assicurare piuttosto che dall’avere un controllo statale, esattamente – esemplifica il ricercatore – come rivendicano i movimenti femministi per cui la sicurezza non si crea moltiplicando telecamere o poliziotti, ma attraverso strade piene di donne che le possono percorrere liberamente».

Per lungo tempo la casa è stata soprattutto una soglia

Esiste dunque un’altra modalità di concepire l’abitato che è uno spazio di relazioni collettive e non di proprietà singola, mononucleare, la cui diffusione è tra l’altro piuttosto recente: «La casa come oggetto commerciale chiuso, costruito da altri, da vendere e affittare, si è sviluppata in Europa con la rivoluzione industriale e urbana, e nel resto del mondo con il colonialismo occidentale – spiega Staid –. Prima non era così: per lungo tempo la casa è stata soprattutto una soglia. Si è abitato sulla porta e per strada, più che chiusi fra quattro mura. E si è costruito di persona invece di entrare in luoghi già predisposti. Da un paio di secoli tutto è cambiato, e spesso in peggio, dato che l’inurbamento selvaggio e centralizzato ha portato a segregazione, diseguaglianze e un’involuzione del rapporto fra uomo e ambiente. In parallelo però si sono sviluppate anche forme di resistenza e creatività rispetto a questo concetto uniformato dell’abitare: l’architettura vernacolare, l’autocostruzione, gli ecovillaggi, le comuni, i campi di rom e sinti, e appunto l’occupazione di spazi inutilizzati».

Non c’è solo la democrazia della delega

Un altro aspetto a cui siamo scarsamente abituati, e che infastidisce non poco certe autorità politiche – come viene reso manifesto nelle loro dichiarazioni in merito ai tentativi di dialogare con i movimenti autogestiti, tentativi che risulterebbero fallimentari per il fatto che questi si rifiutano di designare una delegazione stabile –, è il funzionamento assembleare di tali realtà, concepito in modo orizzontale e basato sul metodo del consenso. «Per ricodificare la vita quotidiana è indispensabile seguire delle norme, nessuno vuole vivere nel caos – premette Staid –. Solo che in questi contesti si tratta di norme create dal basso, rinegoziabili e discusse in assemblea. Ciò dà particolarmente fastidio alle istituzioni perché mette in crisi il preminente discorso secondo cui una cerchia ristretta di persone possa governare nel migliore dei modi. Altrimenti detto, l’esempio della democrazia assembleare praticata negli spazi autogestiti mina di fatto l’idea che l’unica società giusta e possibile sia quella fondata sulla democrazia della delega, che in sostanza è una dittatura della maggioranza».

Il valore dell’immobile

Dopo la demolizione del Molino il numero di Taz – acronimo desunto dalla lingua inglese che sta per “zone autonome temporanee” – organizzato dalle persone che vi gravitavano intorno è aumentato, con l’occupazione di alcuni immobili per un periodo di tempo limitato e di spazi pubblici all’aperto per dare vita ad assemblee, concerti, conferenze. Si tratta anche questo di un modo per rimappare il territorio e tematizzare le problematiche sociali, considera Staid: «Le Taz sono allarmanti per chi governa perché permettono di far vedere le crepe del sistema, di mostrare che anche in una città vetrina come può essere Lugano ci sono marginalità e problematiche. Inoltre mettono in discussione il fatto che ci siano spazi vuoti lasciati alla speculazione edilizia. Con queste azioni si ripensa al concetto stesso di valore dell’immobile che non può essere solo di mercato, ma anche sociale».

Prendersi libertà non concesse

Nel dibattito parlamentare si sono sollevati nuovamente, a più riprese, anche gli argomenti dell’illegalità e della violenza, che l’antropologo mette così in prospettiva: «A volte la creazione degli spazi autogestionari è fatta prendendosi delle libertà non concesse, ciò che viene definito illegale. Il problema della denominazione “illegale”, di cui non faccio l’elogio – specifica Staid – è che spesso viene associata alla violenza o a qualcosa che è brutto per il resto della comunità. Eppure la maggior parte delle occupazioni che si protraggono nel tempo diventa qualcosa di bello e curato, in cui poter immaginare dei mondi nuovi». Lo stabile abbattuto a Lugano dove aveva sede il Molino era un macello in disuso con ancora del sangue alle pareti quando 24 anni fa lo si è iniziato a trasformare da luogo di morte abbandonato a luogo di vita. Nel tempo è stato impreziosito con la costruzione di biblioteca, sala cinema, sala concerti, bar e altri spazi di socializzazione che non apparivano nelle “immagini del degrado di una storia finita male” – come titolava un editoriale – pubblicate su alcuni media dopo il passaggio delle ruspe.

Un termine dall’ampio spettro semantico

«D’altro canto – riprende Staid –, anche la parola violenza ha uno spettro semantico molto ampio. Non credo che il danno alla proprietà o la forza usata in contesti dove si resiste a un attacco compiuto da chi detiene il monopolio della violenza di Stato sia l’aspetto più grave. Resistere a uno sgombero è un atto di forza, certo, ma la vera violenza è quella che colpisce i corpi, è la violenza di genere, è quella che calpesta le persone migranti. È qualcosa che ha a che fare con una strutturazione gerarchica anche nel modo in cui ci si comporta e ci si relaziona con l’altro». Il professore mette inoltre in luce come «l’indignazione per gli atti legati all’autogestione spesso viene da coloro che rappresentano gli interessi dei veri violenti, cioè quelli che producono le ingiustizie sociali, che perpetuano discorsi di intolleranza, che alimentano le guerre. Di fronte a tutto questo, occupare uno spazio e autogestirsi può essere illegale, ma in primo luogo direi che è generoso».

Nella via di un miglioramento evolutivo

Tuttavia, si dice ben consapevole Staid, anche in questi contesti c’è chi commette delle violenze propriamente dette e degli errori. «Sarebbe miope pensare che gli spazi autogestiti siano perfetti ed esenti da criticità – afferma il professore –. Ma la differenza fra uno spazio liberato e uno del potere è che nel primo c’è molta più riflessione e accettazione degli errori nonché maggior volontà, attraverso delle pedagogie del conflitto anche interne, di aprirsi all’ascolto per migliorarsi. In generale non esistono società o esperienze abitative perfette, ma è bene cercare di capire i loro vari funzionamenti e confrontarli con il nostro per imparare nuove idee di socialità e a costruire nuovi modi ibridi e più aperti di vivere». È una possibilità, conclude Staid, «per mettersi nella via di un miglioramento evolutivo».