laR+
logoBol

Uno schiaffo non è mai educativo, ecco come fare senza

Mentre il Consiglio federale presenta il progetto per potenziare la protezione dell’infanzia, un bimbo su 5 subisce regolarmente violenza psicologica

Mentre il Consiglio federale presenta il progetto per potenziare la protezione dell’infanzia, un bimbo su 5 subisce regolarmente violenza psicologica

20 novembre 2024
|

A qualche genitore scappa ancora qualche schiaffo, ma la violenza più frequente nelle famiglie elvetiche è quella psicologica, non lascia lividi ma può spezzare i bambini dentro. Umiliati, insultati, chiusi in camera o altrove. A subire regolarmente queste punizioni è un bambino su cinque. Facendolo sentire rifiutato, inutile e impotente. Lo indica uno studio sul comportamento punitivo dei genitori condotto dall’Università di Friburgo nel 2023 su incarico di Protezione dell’infanzia Svizzera. Stando alla ricerca, realizzata su un campione di 1’605 padri e madri, un fanciullo su dieci è già stato punito con uno schiaffo e 48’000 sono già stati messi sotto l’acqua fredda. Questo nonostante il diritto penale tuteli i figli dalla violenza in famiglia. Ora il Consiglio federale ha deciso di fare un passo oltre, prevedendo una nuova modifica del Codice civile per sancire il principio espressamente. Questa nuova disposizione funge da principio guida e lancia un chiaro segnale: la violenza nell’educazione, punizioni corporali o altri trattamenti degradanti sui bambini non sono tollerati. «Mentre il codice penale parlava di violenza reiterata, la nuova modifica del Codice civile definisce che anche un unico atto non è legittimo», precisa Stefania Brändli esperta dei diritti dell'infanzia per la Fondazione Aspi (Aiuto, sostegno e protezione dell'infanzia).

Nella giornata mondiale dei diritti dei minori cerchiamo di capire, assieme a esperti della Fondazione Aspi (Aiuto, sostegno e protezione dell’infanzia), come può un genitore far rispettare le regole senza usare nessun tipo di violenza.

È il pane quotidiano per la ‘counselor’ relazionale e formatrice ‘Gordon’ Cinzia Valletta, collaboratrice di direzione ad Aspi, responsabile del progetto ‘Love Limits’. Esperta anche in consigli per genitori che vogliono costruire relazioni empatiche e rispettose coi loro figli. Prima di tutto, vediamo quando c’è violenza psicologica. «Tutto quello che fa male al cuore dei bambini. Quando un genitore usa parole denigranti, ricatti, insulti, minacce e privazione dell’affetto», ci spiega. Frasi del tipo ‘Se non fai quello che ti dico, non ti voglio più bene’, sono da evitare – ci spiega – perché il bambino si sente rifiutato e allontanato.

Non è permissivismo

Non usare la violenza, non significa non mettere limiti. «Non è permissivismo o deresponsabilizzazione. Per i bambini è importante imparare che i loro comportamenti possono avere conseguenze sulla vita degli altri». Ecco come si può fare. «È importante parlare coi bambini anche se sono piccoli e aiutarli a modificare quel comportamento che può essere non adeguato». Facciamo un esempio: come reagire se un bimbo di 2 anni intento a esplorare l’ambiente tenta di infilare il cacciavite nella presa elettrica? Un genitore potrebbe sculacciarlo così da fargli capire di non farlo più. Con l’intenzione di proteggerlo. «Va tolto dal pericolo e vanno presi provvedimenti come tappare la presa. Ma dietro quell’azione c’è un bisogno, quello di esplorare che va riconosciuto, accolto, proponendo delle alternative».

Altro esempio: sull’uscio di casa il bambino strilla perché non vuole indossare la giacca anche se è inverno. A una mamma stressata che sta andando al lavoro possono anche saltare i nervi. «Lo capisco. Suggerisco di accogliere il disagio del bambino (‘Capisco che ti dà fastidio questa giacca e pensi di avere troppo caldo’) e poi esprimere anche il proprio punto di vista (‘Fa freddo, io temo ti possa ammalare’). Già coi bambini di 3-4 anni si può negoziare una soluzione accettabile per entrambi». Ma quante madri hanno tutto questo tempo per discutere sull’uscio di casa? «L’alternativa è spiegargli: ora decido io, perché fa freddo e adesso non c’è tempo. Stasera ne parliamo e cerchiamo di trovare una soluzione insieme. Così sa che potrà partecipare a una decisione che lo riguarda». Chi è coinvolto diventa più collaborativo. È fondamentale – continua – basare la relazione coi propri figli su amorevolezza e gentilezza, piuttosto che sull’idea che vogliono provocare gli adulti. «Se diciamo sempre no, lui lo farà lo stesso. A dipendenza dell’età, non lo fa per sfida, non ha la maturazione per concepirla. Il genitore non deve sentirsi vittima di un piccolo tiranno. Non è così. Ci vuole pazienza, pratica e conoscenza su come funziona un bambino».

Ci racconta poi di una madre che non riusciva a convincere suo figlio a mettere il berretto, parlandoci è rimasta stupita dell’esito della negoziazione. «Suo figlio ha accettato la soluzione condivisa di mettere il berretto della mamma. Coinvolgerlo l’ha reso disponibile alla ricerca di una soluzione».

Un problema frequente è il bambino che non vuole andare a scuola. Magari al mattino sta giocando coi Lego ed è concentrato su una costruzione molto complessa. Proporgli di andare all’asilo non sarà facile. «Aiuta immaginare come possa sentirsi, cosa possa provare all’idea di abbandonare quel gioco così coinvolgente e dover posticipare a fine giornata la conclusione della costruzione. Con empatia posso comunicargli che capisco il suo dispiacere. Probabilmente la mia comprensione gli permetterà di essere collaborativo, accettare di andare a scuola e finire più tardi insieme la bella costruzione», spiega Valletta.

Se ascoltato, il bambino è più collaborativo

Riassumendo, tutto va spiegato così il bambino si sente preso sul serio, ascoltato e diventa più collaborativo. La domanda è quanti si impegneranno per davvero evitando così di riproporre schemi educativi violenti e non più tollerati dalle norme elvetiche.

Il Governo federale preserva in ogni caso l’autonomia dei genitori nell’educare la prole e non propone alcun metodo educativo specifico. Ma il messaggio suggerisce di potenziare la prevenzione con maggiori offerte di consulenza (consultori), di migliorarne l’accesso, oltre a una campagna di sensibilizzazione su scala nazionale. «I genitori vanno aiutati e non lasciati soli. Anche loro hanno bisogni che devono essere soddisfatti. Se papà e mamma stanno bene sarà più facile essere efficaci e non ricorrere a punizioni o addirittura alle botte», precisa l’esperta. In ogni progetto di prevenzione, Aspi dedica uno o più incontri per i genitori, dando, tra l’altro, indicazioni su come ascoltare i bambini e come accoglierli.

Tra le conseguenze di una violenza psicologica reiterata ci sono un rischio più elevato di depressione, disturbi dell’apprendimento, comportamenti aggressivi e violenti, problemi di attaccamento. «Un bambino spesso giudicato e maltrattato non smette di amare la mamma o il papà ma sé stesso, pensa di non avere abbastanza valore».

‘L’atto educativo più potente è l’esempio’

Un terreno di conflitti famigliari sono cellulari, social e videogiochi che ‘vampirizzano’ molte ore dei ragazzi. Togliere il cellulare rientra tra le misure praticabili? «È poco efficace, meglio cercare di stabilire insieme delle regole. Se il genitore decide in modo autoritario (non va escluso a priori) è utile comunicarlo (‘Insieme non troviamo una soluzione quindi decido io che sono responsabile del tuo benessere perché so che la tentazione del cellulare è forte) accogliendo anche le reazioni di frustrazione e impotenza (‘Lo so che sei molto arrabbiato ed è mia responsabilità provvedere al tuo bene’). Infatti alcuni Paesi stanno valutando di introdurre un’età minima per l’uso del cellulare e dei social. Divieti difficili da applicare che comunque trasmettono un messaggio chiaro: la società riconosce che in quello strumento è insito un pericolo. «Un uso precoce non fa bene e andrebbe limitato perché i bambini non riescono ad autoregolarsi nell’uso dei social. L’atto educativo più potente resta l’esempio, per essere credibili. Se non voglio che i miei figli lo usino a tavola, devo essere io genitore il primo a non farlo», conclude Valletta.

L’educazione non violenta diventa legge

La Svizzera nel 1997 ha ratificato la Convenzione dei diritti del bambino che tra le altre cose prevede che gli Stati adottino ogni misura (legislativa, sociale ed educativa) per tutelare i bambini da ogni forma di violenza, compresa la prevenzione e l’accompagnamento di bambini e adulti. «La Svizzera è stata più volte ripresa dal Comitato internazionale del diritto del bambino e invitata a inserire nella legislazione una normativa nel Codice civile che vietasse l’uso di qualsiasi violenza nei confronti dei bambini, in qualsiasi ambito», spiega Stefania Brändli.

La nuova modifica del Codice civile, proposta dal Governo federale che passerà al vaglio delle due Camere, si inserisce in questo contesto. L’esperta precisa poi che il concetto di educazione non violenta riguarda anche la sfera esterna alla famiglia, come tempo libero, scuola... «Finalmente non sarà più permesso ricorrere a umiliazioni, ricatti e comportamenti degradanti, neanche a scopo educativo».

La novità

A cento anni dalla dichiarazione di Ginevra

Il 26 settembre 1924, la Società delle Nazioni adottava la Dichiarazione di Ginevra, la prima dichiarazione relativa ai diritti di fanciulli e fanciulle emessa da un organismo intergovernativo. Nell’ambito delle commemorazioni del suo 100° anniversario e del tributo a Eglantyne Jebb, promotrice e fondatrice di Save the Children, il prof. Philip Jaffé (membro del Comitato Onu per i diritti dei bambini) e alcuni colleghi hanno stilato un rinnovato impegno per il 2024. È firmato da varie personalità, tra cui l’attuale e i 7 ex presidenti del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti dei fanciulli, e da molti enti in vari continenti. Allarmati dalle centinaia di milioni di bambini che nel mondo vivono in condizioni di povertà, subiscono violenza, pagano di persona le conseguenze dei cambiamenti climatici chiedono misure urgenti e collettive a loro tutela. Per crescere in condizioni dignitose, lontano da guerre, rispettando i loro diritti (anche di essere ascoltati) e i loro interessi nello sviluppo tecnologico, beneficiando di un’esperienza sicura nel mondo digitale e di un’educazione precoce, gratuita, inclusiva, equa e di qualità. «È passato un secolo e c’è ancora tanto da fare. Riaffermare la volontà di rispettare i diritti dei minori riguarda ciascuno di noi. Ogni adulto può e deve contribuire a metterli in pratica. Non ci sono scuse. È la responsabilità di ciascuno», conclude Myriam Caranzano, esperta del settore e membro del Comitato scientifico della Fondazione Aspi.