Insultato nella chat dei compiti da un compagno delle Medie per il colore della pelle. La rabbia dei genitori. L'esperto: ‘Questi casi vanno segnalati’
‘Sei un brutto negro. Sei uno scimmione africano’. Sono alcuni insulti razzisti settimanali che Alessandro, un ragazzino di 11 anni, che studia alle Medie a Lugano, deve sopportare da alcuni compagni di classe. Quando i docenti non sono presenti, se la prendono vigliaccamente col compagno, che ha la pelle appena più scura della loro. Tutto è documentato anche nella chat, che il gruppetto di studenti usa per i compiti. Il bersaglio è sempre lui: ‘Ale brutto negro’. Scorro i messaggi nella chat coi genitori del ragazzo. Ci sono insulti pesanti, razzisti, cattivi. Decidiamo di parlarne sul giornale mantenendo l’anonimato della famiglia, per tutelare i minori coinvolti. Minori virtualmente globalizzati, ma razzisti davanti alla diversità reale, del compagno di banco.
Quello che ha fatto soffrire di più Alessandro è una foto. La osservo. È una caricatura di una donna africana, con scritto: ‘La mamma di Ale’. “Quando hanno iniziato a insultare mia mamma, ho perso le staffe e l’ho difesa. Non sanno nulla di lei, mi ha fatto molto male”, commenta l’adolescente, rituffandosi, subito dopo, nel suo cellulare.
I suoi genitori non ne possono più dei continui insulti razzisti. Lui ticinese, lei straniera. Si sono trasferiti in Ticino da qualche anno, prima vivevano in Svizzera tedesca. ‘Lì Ale era uno tra tanti, nessuno badava al colore della sua pelle. A Lugano si sente diverso’. O meglio, alcuni compagni lo fanno sentire diverso.
Tutto è iniziato qualche mese prima della fine dell’anno scolastico. La madre che controlla regolarmente il cellulare del figlio ha notato gli attacchi verbali e si è preoccupata. Alessandro è un bravo studente, ha belle note, essendo bilingue è avvantaggiato e spesso aiuta i compagni. Ma non è bastato, è comunque diventato il bersaglio del bulletto della classe. Gli altri ragazzi, come un gregge di pecore, l’hanno seguito.
“Mio figlio è diventato insicuro. Sopportare insulti per il colore della pelle non è tollerabile”, commenta il padre. È arrabbiato, molto addolorato. “Il razzismo esiste eccome, sembra sempre lontano, sembra che riguarda gli altri, invece accade tra i ragazzi alle Medie a Lugano. Chi insulta mio figlio non è svizzero. È proprio vero che l’ultimo arrivato chiude la porta”, chiosa.
Non volendo più sopportare oltre, il papà di Alessandro ha contattato i genitori dell’adolescente che molesta suo figlio. Hanno minimizzato i fatti, promettendo di fare qualcosa. Ma così non è stato. Risultato: Alessandro è stato escluso dalla chat dei ragazzi. Fa male, ma non è una tragedia, perché può contare sugli amici dello sport e altri compagni (soprattutto le ragazze) con cui si trova bene.
Dalla scuola, il docente di classe, ha risposto che “non può controllare le chat che gli studenti creano per studiare”. A fine anno ha comunque mostrato alla classe un film: l’eroe era un uomo africano. Un esempio positivo per smontare tanta violenza verbale razzista. Basterà per scongiurare nuovi insulti a settembre?
Il punto è, che cosa deve fare un genitore. “Ignorare, aspettare che passa, mettere la testa sotto la sabbia... ci abbiamo pensato, ma non vogliamo che nostro figlio sopporti ancora insulti razzisti. Ne soffre e ha iniziato a vedere un terapeuta. Tutto questo deve finire, anche con una denuncia se servirà”, conclude la madre.
Denunciare le umiliazioni subite? Coinvolgere la scuola, segnalare il caso in direzione? Aprire un dialogo coi genitori dell’aggressore? Cercare una mediazione esterna? Cambiare scuola? Far finta di nulla e aspettare che passa, tanto reagire non cambia nulla o rischia di peggiorare la situazione? È il dilemma di tante vittime di insulti razzisti e dei loro genitori. “Il caso di Alessandro riportato qui è grave. Di regola, non fare nulla è la soluzione più spiacevole, se non li condanniamo apertamente, questi atteggiamenti razzisti continueranno”, dice Mariaelena Biliato, responsabile del Centro per la Prevenzione delle Discriminazioni (CPD) a Lugano. Un luogo di ascolto, consiglio, mediazione, sensibilizzazione e quando serve, anche di consulenza legale. La struttura inaugurata a inizio 2022 su mandato del Servizio per l’integrazione degli stranieri (a cui fa capo il Dipartimento delle istituzioni) è a disposizione delle vittime di discriminazione (telefono: 0800 194 800).
Lo scorso anno sono stati segnalati 27 episodi di discriminazione (erano 708 in Svizzera), la maggior parte erano casi di razzismo, xenofobia, disparità di trattamento sul posto di lavoro. “Principalmente episodi legati all’uso di un linguaggio discriminatorio. Infatti, nella metà dei casi, sono stati denunciati insulti e ingiurie a carattere razzista. Particolarmente colpite le persone afrodiscendenti”. Anche a scuola. Il caso di Alessandro non è l’unico. Altri genitori si sono rivolti di recente al Centro per offese razziste a scuola verso i loro figli. “Quando c’è una continuità degli insulti la situazione andrebbe segnalata. Il Centro è a disposizione di tutti, aiuta a sentirsi meno soli e sostiene nell’esplorare possibili vie di intervento. C’è anche un gruppo della polizia (Visione giovani) che si occupa di social e internet e può dare un supporto”.
La reazione della scuola in questi casi può fare la differenza. “Gli istituti scolastici devono salvaguardare l’integrità fisica e morale di tutti gli alunni. Ogni caso è unico. Quando veniamo sollecitati e ci sono di mezzo dei minori, facilitiamo una mediazione tra genitori e scuola. Se la direzione è sensibile al tema e prende posizione apertamente contro questi insulti razzisti è più facile trovare una soluzione per tutelare la vittima da una situazione che crea sofferenza”. Concretamente la mediazione del Centro ha permesso di tutelare maggiormente alcune vittime. “Ricordo un caso, dove l’intervento deciso della direzione ha contribuito a calmare le acque in classe. Non ci sono stati più insulti. Purtroppo, non sempre va così bene. Noi ci siamo, accompagniamo le vittime finché lo desiderano. Con le scuole proponiamo laboratori, teatri, film, incontri, insomma programmi di sensibilizzazione, pensati su misura per prevenire queste forme di razzismo”, precisa Biliato.
Insomma c’è tutta una cultura di pregiudizi da smontare. Gran parte dei casi di discriminazione razziale non hanno un vero e proprio fondamento di tipo ideologico, ma sono espressione di ignoranza, paure diffuse e, in generale, mancanza di empatia. Ventisette casi lo scorso anno in Ticino, in media uno ogni due settimane, sono pochi, sono tanti? “Sono solo la punta dell’iceberg, in realtà sono poche le persone che fanno un passo avanti, segnalano di essere vittime, o una situazione, e chiedono un supporto. Ma sono comunque in aumento e questo ci fa ben sperare”, afferma Biliato.
Il diritto federale e cantonale contengono diverse disposizioni di legge che vietano e sanzionano, direttamente o indirettamente, specifiche forme di discriminazione razziale. In particolare, l’art. 261 bis del Codice penale punisce con una multa o con pene detentive che possono arrivare ai tre anni alcune forme di discriminazione razziale ritenute particolarmente gravi. Un reato perseguibile d’ufficio. Significa che chiunque, vittima o testimone, può farne denuncia alla polizia o al Ministero pubblico. Le vittime possono costituirsi parte civile e partecipare al processo penale, facendo valere le proprie pretese risarcitorie. È consigliabile richiedere la consulenza legale perché le condizioni di applicabilità dell’art. 261 bis sono restrittive: in particolare, sono punibili penalmente solo gli atti commessi in pubblico. Significa anche sulla propria pagina Facebook. Chi condivide commenti razzisti coi propri “amici” di Fb si assume quindi il rischio di farlo pubblicamente, e quindi di commettere un reato. Se una chat creata da studenti delle Medie per i compiti è considerato spazio pubblico o privato è tutto da definire. “La via legale si può esplorare, anche se la questione è complessa quando c’è di mezzo la rete, non c’è una chiara definizione di che cosa sia pubblico o privato. È una via ma si lavora soprattutto sulla responsabilizzazione delle persone, sul danno fatto a chi subisce forme di razzismo esplicito. Il genitore può invitare la scuola a vigilare. E lo ripeto, tutte le statistiche confermano che le persone afrodiscendenti sono le più esposte al razzismo”, conclude.