Silvia Misiti dirige la Fondazione per la ricerca scientifica di Ibsa: ‘Trovo che le quote rosa siano sempre una pratica imbarazzante’
Ha un doppio dottorato per medico scienziato, con specializzazione in endocrinologia. Silvia Misiti, la nostra seconda ospite de ‘L’unica donna nella stanza’, il podcast de ‘laRegione’ in avvicinamento all’8 marzo, ha iniziato la sua carriera come assistente, poi docente e ricercatrice all’Università La Sapienza di Roma. È autrice di decine di pubblicazioni e dal 2012 vive a Lugano. Qui, a Ibsa, multinazionale farmaceutica, dirige la Fondazione per la ricerca scientifica. La sua missione è coniugare la passione per la ricerca con la promozione di molteplici attività incentrate sull’innovazione, la formazione e la divulgazione, attraverso stretti contatti con le istituzioni culturali e accademiche, così da mantenere uno sguardo ampio su ciò che la ricerca ci offre oggi.
La scienza è concretezza. Andiamo dunque subito al punto: qual è il ruolo oggi della donna nella comunità scientifica, non solo ticinese e svizzera ma internazionale?
È una bella domanda. In realtà il ruolo della donna nella comunità scientifica va ancora conquistato e probabilmente definito. Eppure il loro, nostro, contributo che possono portare nella scienza è quello di una maggiore lucidità e una preziosa capacità di visione d’insieme. Ovviamente non si può parlare di tutte le donne, come non tutti gli uomini sono uguali, però questo è sicuramente un ruolo importante, non ancora così definito e quindi terra di conquista.
Partendo da Marie Curie passando per Rita Levi Montalcini, solo per fare due nomi di donne importanti nella scienza, pare che in questo ambito, più che in altri, la donna abbia avuto un ruolo di spicco ben prima che in altri settori. È così?
Se il ruolo della donna è un cammino, certamente Rita Levi Montalcini ha insegnato e segnato questo cammino facendo comprendere, in un periodo in cui era visto molto differentemente da oggi, il suo importante ruolo di grande scienziata. Non senza far parlare anche molto di sé: non era sposata, non aveva figli, era completamente dedicata alla scienza tanto che, anche per il suo aspetto fisico stravagante, veniva considerata come una ‘strega’. Era un personaggio atipico, eppure è stata una figura fondamentale nel mondo femminile scientifico, in quanto ha fatto capire che le donne potevano avere un ruolo importante, non tanto come semplice ricercatrice ma come capo dipartimento o capo laboratorio. Fino, come nel suo caso, a guadagnare figure apicali della sua carriera e a vincere il Premio Nobel, momento in cui ha fatto realmente capire a questo settore, e non solo, come anche le donne potessero parteciparvi. Dalla mia esperienza, lavorando per molti anni nei laboratori dell’Università di Roma, posso dire che sono tante le donne impegnate nella ricerca, ma poi, nei vari passaggi, si perdono. È come se tutte le donne che vedi nei ruoli più bassi, a livello di ricercatori, di studenti di dottorato o nelle aule di biologia o di medicina, poi non le ritrovi più nei board o nei ruoli più alti, dove invece vi sono professori ordinari e rettori uomini. Questa situazione sta fortunatamente cambiando, pensiamo alla nomina, per la prima volta, di una rettrice all’Università La Sapienza di Roma o, recentemente, all’Università della Svizzera italiana di Lugano. Forse anche per questo dobbiamo moltissimo a Rita Levi Montalcini, non solo per il suo contributo come esperimenti e come risultati ma anche come esempio.
Fra gli scienziati e i medici percepisci, nelle collaborazioni e nella condivisione di studi e progetti, un ruolo della donna allo stesso livello dei colleghi? Oppure non è proprio vero, come si è sentito spesso dire, che fra i ‘cervelloni’ uomo e donna sono la stessa cosa?
Forse adesso cominciamo a ragionare in questo senso, ma in tutti questi anni purtroppo non è stato così, anche perché la ricerca scientifica è una professione che richiede tantissima dedizione. C’è sempre un po’ stata questa considerazione del fatto che comunque le donne, dovendosi occupare della famiglia e della casa, senza banalizzare quest’impegno, non erano adatte a questo lavoro. Io stessa ho incontrato sempre superiori uomini e pur dedicando gran parte della mia giornata alle attività di ricerca mi si chiedeva spesso di più, tenendomi magari fino a tarda serata giusto per una riunione che poteva essere organizzata nel pomeriggio o la mattina successiva. Situazioni, spiacevoli, che mi sono sempre pesate. Probabilmente alcuni uomini potevano permettersi di farlo, per me era impossibile. Non voglio però generalizzare. Ho avuto infatti un’esperienza di quasi tre anni a Boston, negli Stati Uniti, e lì era già un po’ diverso. Nel senso che, nel 1996, vi era una considerazione diversa: c’erano più ricercatrici donne, c’era più attenzione, era presente già un nido per l’infanzia. Ecco, se in Italia avessi avuto questa possibilità mia mamma, che ha supervisionato tutte le baby-sitter che abbiamo avuto, avrebbe lavorato molto meno.
In collaborazione con lo spazio RSI wetube
Si è parlato di conciliabilità fra lavoro e famiglia. Ma c’è un’influenza dell’educazione avuta nell’infanzia nello scegliere o meno questo tipo di professioni? Vi è un cambiamento in questo o vi è contrariamente ancora tanto cammino da fare nel decidere d’intraprendere un certo tipo di percorso nella società?
Sicuramente qualcosa anche qui sta cambiando, ma, anche secondo analisi approfondite, è vero che spesso la ‘colpa’ è proprio di quell’imprinting che diamo come educazione. Pensiamo ai libri utilizzati per intrattenimento e formazione per i bambini: il giardiniere o il camionista sono sempre maschi, l’infermiera è invece una donna. Quindi sicuramente non è un problema di distribuzione di neuroni, di come sono fatti i nostri emisferi, ma è una sorta di inconsapevole e inconscio marchio. Io vengo da una famiglia in cui mio padre è chimico e mia madre biologa, una famiglia dunque di scienziati. Il loro esempio ha influito sulla mia educazione. Non così altrove, come ci confermano i numeri di facoltà che restano ancora tabù per le donne, ovvero ingegneria, chimica, fisica, mentre biologia è ormai predominio femminile. Dove insomma vi è maggiormente quel concetto di tecnica scientifica pare che le bambine siano allontanate... Anche matematica è una facoltà ancora molto maschile, molto meno la biomedicina. Del resto ricordo come ai tempi della mia scelta vi fosse un’imposizione, neppure troppo velata, che invitava le ragazze a evitare le troppe ore in sala operatoria, perché lì in qualche maniera non si poteva essere raggiungibili... Una sorta di influenza che portava le studentesse a scegliere piuttosto pediatria o ginecologia, ed evitare così di essere assorbite tutto il giorno... Al contrario un uomo poteva tranquillamente fare ciò che preferiva.
Avverti che nel mondo scientifico uomini e donne hanno le stesse opportunità di partecipare a concorsi, ricerche, team di studi?
Non ho mai visto né percepito una reale limitazione. È che, probabilmente, per come poi sono strutturate la vita e la professione, soprattutto di una donna, nel momento della scelta del candidato o nell’offerta, vi sia un passo indietro delle stesse donne per il timore di non riuscire a portare avanti questo tipo di progetto. Quello che è ancora probabilmente presente, e lo vedo anche nella mia azienda, è il fatto che vi sono tantissime donne in ruoli apicali, ma quando il board è più ristretto rimangono tutti uomini. In questo senso c’è ancora quell’idea di ‘rischio’, ovvero la falsa credenza che se metti una donna in posizioni clou poi non vi si può dedicare totalmente. È un dato di fatto, per esempio, le recenti assunzioni di donne un po’ agée, per la convinzione che avendo passato ‘quel’ periodo possano essere più concentrate.
Si può fare qualcosa per scardinare questa distinzione fra uomini e donne nel ricoprire realmente dei ruoli apicali? Ad esempio, sappiamo che per il nuovo rettore dell’Usi si è cercato di incentivare la partecipazione di donne, cominciando a declinare prima al femminile piuttosto che al maschile l’apertura del concorso. Secondo te serve un incoraggiamento e come lo si può fare?
L’incoraggiamento dovrebbe essere non tanto nelle quote rosa, che ho sempre trovato una pratica imbarazzante perché concepite quasi come quote disabilità, ma nella sezione stessa, paragonando curricula e non generi. L’esempio della rettrice dell’Usi indubbiamente incoraggia il cammino delle donne, a parità di carriera e competenze. È questo il modo migliore per far capire a tutta la parte femminile che si può fare! Con piacere vedo un bel fiorire di esempi.
Quale direttrice di una fondazione scientifica dovrai avere relazioni con luminari della scienza, a livello internazionale. Dove hai trovato più difficoltà nel condividere obiettivi e progetti, fra gli uomini o le donne?
Con le donne, professionalmente parlando, mi trovo sempre molto bene perché trovo che abbiano una capacità di vedere le cose nella loro interezza, una visione sempre più ampia rispetto a quella degli uomini. E poi una capacità di contaminazione che apprezzo sempre molto. Sicuramente trovo che se ci fossero un po’ più donne nei progetti, nelle associazioni, forse la produzione e l’attività sarebbero leggermente diverse nei risultati.