Appena pensano al sesso sono a rischio reato. Il criminologo Paolo Giulini spiega come evitare le recidive. Più giovani a rischio di sessualità deviante
‘Se non mi avessero fermato sarei diventato un serial killer. Appena penso al sesso so che sono a rischio di reato’. Camminano come funamboli in sospeso tra pseudonormalità e rischio di recidiva. Deprogrammare uno stupratore si può, ma lui deve volerlo, deve riconoscere la bestia che ha dentro, ed essere pronto a sciogliere il nodo fra sessualità e aggressività. Spesso la violenza sessuale non è un modo aggressivo di esprimere la sessualità, ma piuttosto un modo sessuale di esprimere l’aggressività. Sono bombe ad orologeria. Il team del criminologo clinico Paolo Giulini ne ha disinnescate tante al carcere di Bollate a Milano, dove c’è un intero piano dedicato alla presa a carico di persone condannate o accusate di reati sessuali.
Un dato per capire: dal 2005, cioè da quando esiste l’Unità di trattamento intensificato per autori di reati sessuali nel carcere di Bollate, sono stati trattati 355 detenuti; le recidive sono state 12. Lo dirige Giulini: «Non si può restituire ai violenti la possibilità di tornare nella società senza passare dalla giustizia riparativa che mette al centro le vittime». Riparare significa capire la sofferenza causata dall’aggressione, risarcire il danno, fino all’interazione con la vittima. Tanti pregiudizi vanno sfatati. «L’abusante non è un vecchietto che va in giro nei parchi a corrompere i minorenni. L’età picco della sessualità deviante è 14/15 anni. Gli adolescenti coinvolti vanno aiutati, non dobbiamo farli sentire dei paria quando hanno avuto queste condotte. Dobbiamo evitare che trarre piacere dalla violenza diventi compulsivo», precisa il saggista e docente alla facoltà di psicologia dell’Università Cattolica di Milano. Era ospite al congresso ‘Prima che accada!’ organizzato a Lugano dalla Fondazione per l’Aiuto, il sostegno e la protezione dell’infanzia (Aspi). Lo abbiamo intervistato.
Come aiutate questi giovani?
Spesso non hanno la consapevolezza della lesività di queste condotte. Diamo loro l’idea di che cosa vive la vittima. Non basta punire, occorre restituire a questi giovani un percorso di consapevolezza, non sempre facile da costruire, che richiede molti professionisti e professionalità. Questo non significa che diventeranno dei violentatori o abusanti sessuali (il 2-3% lo farà).
In carcere come assistete i detenuti?
Il nostro programma fa riferimento a modelli analoghi sviluppati in Canada verso la fine degli anni 80, dove équipe multidisciplinari (criminologi clinici, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, operatori di area artistica e motoria) propongono un percorso settimanale intensivo di presa a carico. Lavoriamo in un piano dedicato del penitenziario, chi ci entra firma un contratto.
Perché devono firmare un contratto?
Perché responsabilizza su un percorso, dà la sensazione di essere vincolati, loro e noi. Oltre ai professionisti anche i luoghi devono essere adeguati.
Che cosa scatta nella mente di uno stupratore?
L’abusante non è una categoria in termini psicologici ma più in senso criminologico. Osserviamo delle costanti cliniche: molti tendono a minimizzare o a negare l’accaduto, arrivano anche a vedersi come vittime, non riescono ad entrare in contatto con la distruttività dei loro atti, hanno un’inadeguata gestione della collera, dell’impulsività. Spesso la violenza sessuale non è un modo aggressivo di esprimere la sessualità, ma piuttosto un modo sessuale di esprimere l’aggressività. Il primo passo è metterli di fronte alle loro responsabilità, ascoltarli e costruire la motivazione a seguire un percorso. Si passa poi ad attività di gruppo, fondamentali nel nostro approccio.
Che cosa hanno fatto i detenuti che seguono il vostro programma?
Sono detenuti condannati o imputati che chiedono di fare questo percorso. Hanno alle spalle reati sessuali con e senza contatto (pedopornografia, revenge porno, adescamento) su minori, abusi sessuali in famiglia e fuori. Alla fine dei nove mesi, possono restare nell’unità per uno o più anni; chi è in fine pena può continuare settimanalmente il lavoro in gruppo nel nostro presidio esterno. Un’altra possibilità sono i circoli di sostegno e responsabilità, dove volontari formati firmano con loro un contratto: si impegnano a seguirli per un anno a condizione che frequentino regolarmente i gruppi del nostro servizio esterno. Una sorta di controllo benevolo per chi rischia ancora di poter passare all’atto.
Su 355 detenuti che hanno seguito il programma, solo 12 recidivi: qual è la strategia vincente?
Una presa in carico della persona, che la coinvolge a livello olistico, con gruppi sulle sue vulnerabilità, sugli aspetti traumatici che ha vissuto, sulla sua infanzia disordinata, ma che tengono conto anche della capacità di prevedere il rischio di recidiva ed entrare in contatto con le sue risorse. In un luogo protetto lavora sugli aspetti più fragili della propria intimità, senza avere il dito puntato, ma in una modalità ricostruttiva ed evolutiva per poter consolidare quei fattori protettivi che noi insegniamo nel percorso.
È come riprogrammarli, correggerli emotivamente: basta per evitare recidive?
Importante è creare un corrimano. L’espressione l’ha coniata un detenuto molto riottoso, con alle spalle più abusi sessuali su minori, terminato il percorso, mi ha detto: ‘Credo che non cambierò mai, tutto quello che ho fatto da voi non ha modificato il mio modo di pensare, ma grazie a voi mi sono accorto che per tutta la vita avrò bisogno di un corrimano’. Non cambiamo le persone, ma mettiamo in sicurezza loro e la società, fornendo corrimano stabili a chi è a rischio di recidiva.
Siamo abituati al sostegno alle vittime, perché aiutare gli autori di violenza?
Prendersi cura degli autori significa anche incontrare quelle parti di trascuratezza, negligenza e talvolta anche di abuso che hanno conosciuto. Sono stati a loro volta legati a un’infanzia non protetta. Riparare questa parte aiuta a scongiurare recidive.
Ogni aggressore è stato una vittima?
Più che una vittima ci sono delle dinamiche relazionali disfunzionali, anche traumi, che lo hanno portato a non sentirsi protetto nel suo sviluppo.
Non si alleggerisce così la responsabilità di queste persone?
Quando firmano il contratto, spieghiamo quali sono criteri e scopi delle varie tappe e si affronta la responsabilizzazione.
Come intercettare i pedofili prima che passino all’atto, come fermarli prima?
Occorre avere operatori formati e servizi dedicati, anche una logica non stigmatizzante verso la sessualità deviata, ma riconoscere che è un problema diffuso ed è importante intercettarlo. C’è chi può aiutarli a cambiare, a restare pedofili tutta la vita senza mai passare all’atto. È possibile se sono accompagnati da qualcuno che li aiuta a gestirsi.
Importante è avere servizi capaci di dedicarsi a questi ascolti, che sanno intercettare i fattori di rischio, costruire un rapporto di fiducia tale da farli aprire. Stiamo lavorando ad una linea telefonica dedicata. Sono utili anche i circoli, ne abbiamo 15 attivi nell’area di Milano, tre accolgono persone intercettate nei presidi criminologici che non sono mai passate all’atto. Cittadini volontari li accompagnano nel percorso che fanno in trattamento. È un controllo benevolo sulla loro sessualità deviante.
Perché a volte i familiari coprono, difendono chi abusa? Si tende a negare che un proprio caro sia un ‘mostro’?
Spesso c’è improvvisazione, si tende a negare il fenomeno: è vero i familiari tendono a minimizzare i fatti. Devono essere coinvolti in parallelo al percorso dell’abusante. Hanno bisogno di capire la potenziale pericolosità del loro caro e imparare a gestirla. Verso la famiglia va costruita un’alleanza di lavoro. Questi trattamenti sono efficaci per evitare vittimizzazioni secondarie verso chi ha subito un abuso in famiglia. L’autore, una volta scontata la pena, se incontra la vittima, soprattutto se è un familiare, invece di scusarsi, spesso nega i fatti o la attacca verbalmente.