Si corre domani la 119.ma edizione della Parigi-Roubaix, la più iconica e la più anacronistica delle classiche. Favorito Van der Poel, occhio a Küng
Inferno del Nord, progetto diabolico, una porcheria, l’ultima follia del ciclismo… Numerosi sono gli epiteti con i quali è stata descritta in oltre un secolo la Parigi-Roubaix, eppure da quel lontano giorno di Pasqua del 1896 soltanto le due guerre mondiali e la pandemia di Covid-19 sono riuscite a far tacere le pietre. Dopo l’edizione cancellata nel 2020 e quella spostata al 3 ottobre del 2021, la Roubaix torna nella sua collocazione tradizionale primaverile, anche se il primo turno delle presidenziali francesi ha costretto a un leggero posticipo, togliendo di fatto la corsa del pavé dalla scia della Ronde dei Muri, ciò che ha permesso a molti protagonisti di avere una settimana in più di recupero tra le due gare delle pietre, che solo pochi campionissimi hanno saputo mettere in fila nel giro di sette giorni.
L’Inferno del Nord è sempre l’Inferno del Nord. Con pioggia e fango rende scivolosi i tratti in pavé a schiena d’asino e dipinge i volti dei ciclisti con una maschera di fango, sotto la quale è però possibile leggere la paura per un percorso che dietro a ogni pietra nasconde un’insidia; con il sole costringe i protagonisti a masticare polvere per oltre 250 km, rendendo non meno dura la più anacronistica delle classiche del ciclismo. Domani a Roubaix dovrebbe splendere un sole in grado di accontentare tutti, perché per quanto fastidiosa possa essere la polvere che riempie occhi e polmoni e rende difficile la respirazione, è sempre meglio del fango. I chilometri da percorrere saranno 257,2, i settori di pavé 30, sul tracciato delle ultime due edizioni, con partenza da Compiègne e arrivo nel velodromo di Roubaix.
Velodromo che rappresenta il seme dal quale 126 anni fa nacque quella che oggi è considerata come uno dei cinque Monumenti del ciclismo. La sua costruzione la si deve a Théodore Vienne e Maurice Perez, due imprenditori del ramo tessile alla base dell’economia del Nord della Francia, i quali non si potevano immaginare che la loro intenzione di fornire una valvola di sfogo agli operai della città si sarebbe tramutata in uno dei momenti più iconici del panorama sportivo internazionale. Un anno dopo l’edificazione del velodromo, i due decisero di creare una nuova corsa ciclistica francese, sullo stile delle già esistenti Parigi-Brest-Parigi e Bordeaux-Parigi. A sostenere il progetto, come da tradizione delle due ruote (la Gazzetta per il Giro d’Italia, l’Auto per il Tour de France), fu un giornale, Le Vélo, diretto da Louis Minart. Il quale affidò l’organizzazione al responsabile delle pagine di ciclismo, Victor Breyer. A quest’ultimo fu chiesto di stilare uno studio di fattibilità e perciò si recò in auto ad Amiens, da dove partì in bicicletta alla volta di Roubaix. Dopo un giornata intera trascorsa sotto la pioggia a lottare con strade praticamente tutte in pavé, giurò che al suo direttore avrebbe chiesto di sospendere quel "progetto diabolico", troppo pericoloso per i partecipanti. Se oggi lo sport mondiale può godere delle emozioni provocate da ciclisti che si danno battaglia su acciottolati sconnessi, tra polvere, fango, cadute, forature, drammi e sublimazioni, lo si deve al fatto che Victor Breyer, chissà per quale ragione, prima di inviare il telegramma a Minart cambiò idea e decise di dare semaforo verde al progetto.
La nascita della Roubaix dovette superare perfino l’ostracismo della chiesa francese, la quale si oppose fermamente al fatto che la prima edizione si disputasse la domenica di Pasqua, in quanto ciclisti e addetti all’organizzazione non avrebbero avuto la possibilità di recarsi a messa. Si pensò di correre ai ripari, organizzando una funzione prima della partenza, ma siccome il colpo di pistola era fissato alle 4 del mattino, non si trovò nessuno disposto a celebrare, per cui la cinquantina di temerari (molti tra gli iscritti non si presentarono al via, dopo essersi fatti un’idea dell’inferno che li attendeva) decise di onorare la Resurrezione con la sua immane fatica. Dopo 300 km, solo 32 ciclisti raggiunsero il velodromo di Roubaix: pochi, ma sufficienti a dimostrare che l’impresa era possibile. La vittoria andò al tedesco Josef Fischer con il tempo di 9h17’00", alla media di 28,124 km/h. Terzo giunse, sotto il tricolore italiano, il valdostano Maurice Garin, poi vincitore nel 1897 e 1898. Dopo essere stato naturalizzato francese, nel 1903 si aggiudicò la prima edizione del Tour de France.
Dall’inizio degli anni settanta, la partenza della Roubaix è stata spostata a Compiègne, una sessantina di chilometri a Nord di Parigi. È lì che in un vagone ferroviario (poi fatto saltare in aria da Adolf Hitler dopo avervi ricevuto la capitolazione della Francia), alle 5.00 dell’11 novembre 1918 venne firmato l’armistizio che pose fine all’"inutile strage" della Prima guerra mondiale. Strage che si portò via due vincitori della Roubaix, Octave Lapize (quello del "Vous êtes des assassins" rivolto agli organizzatori del Tour de France quando nel 1910 decisero d’inserire per la prima volta i Pirenei), trionfatore per tre volte tra il 1909 e il 1911, e il lussemburghese François Faber, vincitore nel 1913. A quei tempi la corsa, per quanto massacrante, non era ancora l’Inferno del Nord. Lo sarebbe diventata nel 1919, quando le sue strade tornarono a essere solcate dalle biciclette da corsa e non più da quelle militari, dalle auto al seguito e non più dai cannoni, dalla folla degli spettatori e non più dalle interminabili colonne di soldati incamminati verso il fronte della Grande Guerra. La devastazione causata tra Parigi e Roubaix dai bombardamenti, i crateri, le foreste di alberi anneriti, il paesaggio lunare costellato da cadaveri in putrefazione, i cimiteri improvvisati, le città ridotte a cumuli di macerie non potevano non richiamare alla mente di Victor Breyer un immenso, interminabile girone infernale: «Questo è veramente l’Inferno del Nord, un’apocalisse», scrisse sulle pagine de L’Auto, il quotidiano sportivo che aveva soppiantato Le Vélo. Negli anni, il soprannome ha perso il suo significato originale, ma è rimasto a simboleggiare la durezza di una corsa d’altri tempi, dove i volti dei protagonisti, incrostati di fango e stravolti dalla fatica, possono richiamare alla mente certe maschere diaboliche di Halloween e di Carnevale.
La Foresta dell’Arenberg (2,3 km), Auchy à Bersée (2,7 km), Mons-en-Pévèle (3 km), Champhin-en-Pévèle (1,8 km), Carrefour-de-l’Arbre (2,1 km) sono alcuni dei 30 settori di pavé (per un totale di 54,8 km) che contraddistingueranno la 119ª edizione della Roubaix. Sono quelli più iconici, dove, di norma, si vince (Carrefour) o si perde (Arenberg) la battaglia contro le pietre, veri simboli di un raid che, come New York, o si ama o si odia, senza scale di grigi, senza possibilità di compromessi. Ma i simboli vanno difesi e curati: dagli uomini come dal progresso. Negli anni Sessanta, dopo la costante pavimentazione delle strade del Nord della Francia, gli organizzatori faticavano a trovare settori di pavé da inserire nel percorso ed erano costretti a battere le campagne della zona alla ricerca di strade non ancora conquistate dall’asfalto. Fu così che nel 1968 l’ex ciclista Jean Stablinski segnalò un passaggio diventato negli anni un’icona della corsa, la Trouée d’Arenberg. La progressiva riscoperta del pavé la si deve anche a un’associazione fondata a inizio anni Ottanta, gli Amici della Parigi-Roubaix, la quale si occupa della cura dei tratti esistenti, della scoperta di nuove strade lastricate e della pavimentazione di settori liberati dall’asfalto e riportati al loro originale splendore. Un lavoro quanto mai utile, anche perché tra un’edizione e quella successiva sono parecchie le pietre che scompaiono (in particolare dalla Foresta), prede di fantomatici collezionisti, e che vanno sostituite e riposizionate.
È dal 2013 e dallo splendido uno-due di Fabian Cancellara (trionfatore nel velodromo anche nel 2006 e nel 2010) che nessuno riesce a mettere in fila Giro delle Fiandre e Parigi-Roubaix. Un’impresa titanica, come dimostra il fatto che soltanto in dieci ce l’hanno fatta e tra questi non figurano nomi quali quelli di Eddy Merckx e Johan Museeuw. Il fatto che questa volta le due classiche non si svolgano in weekend successivi apre le porte a un Mathieu van der Poel le cui caratteristiche fisiche e tecniche sembrano tagliate su misura per l’Inferno del Nord. Il nipote di Raymond Poulidor, dopo aver trionfato sui Muri punta alla doppietta, agevolato dal fatto che il suo grande rivale, il belga Wout van Aert, debilitato dal Covid-19, sarà al via ma con un ruolo essenzialmente da gregario. La grande abilità di VDP nella mountain bike e nel ciclocross ne fanno l’atleta ideale per domare il pavé, sia in condizioni da asciutto, sia in caso di strade bagnate e fangose. Ma essere il più forte alla Roubaix non basta, occorre pure l’aiuto della Dea bendata. Anche solo mettere piede a terra per una caduta altrui, magari nella Foresta dell’Arenberg, è sufficiente per dire addio ai sogni di gloria, non parliamo poi di possibili ruzzoloni, scivolate, forature, incidenti meccanici. Per salire sul podio della Roubaix tutti i tasselli devono incastrarsi al loro posto, in quella che diventa la giornata perfetta. Domenica non ci sarà il vincitore dell’ultima edizione, l’italiano Sonny Colbrelli, colpito da arresto cardiaco il mese scorso al termine della prima tappa della Volta a Catalunya.
Tra gli outsider spiccano i nomi dei danesi Kasper Asgreen e Mads Pedersen, dei belgi Sep Vanmarcke e Jasper Stuyven, degli olandesi Niki Terpstra e Dylan van Baarle, del francese Christophe Laporte, del norvegese Alexander Kristoff, del ceco Zdenek Stybar. E anche dell’elvetico Stefan Küng, in grandi condizioni dopo il quinto posto alla Ronde e l’ottavo all’Amstel. Il turgoviese ha fatto della Roubaix l’obiettivo stagionale. Con lui ci saranno altri sette svizzeri, tra cui Silvan Dillier, secondo nel 2018 alle spalle di Peter Sagan, e Stefan Bissegger, altro elemento il cui fisico sembra tagliato su misura per le pietre. Non ci sarà, invece, Marc Hirschi, già proiettato alle classiche delle Ardenne, con la Freccia vallone mercoledì e la Liegi-Bastogne-Liegi domenica.