Università di Ginevra e Poli di Losanna uniscono le forze per scovare quali sintomi predicono il male psicotico: il ruolo di ansia e sensi di colpa
Convivere con malattie psicotiche è un vero inferno, dal quale non si scappa. Forzati a ‘coabitare’ con una mente allucinata e delirante: sente una voce che non c’è, vede cose inesistenti, ha idee distorte. Si è costantemente preda di paure irrazionali, che costruiscono nemici dove non esistono. Una devastazione interiore che consuma anche chi sta attorno, di regola i primi sintomi compaiono nell’adolescenza. La scienza ha scoperto alcuni dei meccanismi neurobiologici che sono associati allo sviluppo di malattie psicotiche, come la schizofrenia: una persona su 4’000 ha una mutazione (in termini tecnici si chiama microdelezione) del cromosoma 22. Tuttavia, solo un terzo di questi bambini diventerà uno schizofrenico. Come determinare chi si ammalerà e chi no? Quali sintomi lasciano presupporre che cosa succederà in futuro, così da poter prevenire l’infausto destino?
Sono le domande che si è posto un team di ricercatori dell’Università di Ginevra (Unige) e del Politecnico federale di Losanna, che negli ultimi 20 anni ha seguito in modo longitudinale un gruppo di 70 bambini (dai 10 anni fino ai 17 anni) con questa diagnosi, valutando l’impatto di una quarantina di variabili.
Una mano l’ha data anche l’intelligenza artificiale, approntando un algoritmo che permette di combinare nella medesima analisi variabili (neurobiologiche, psicologiche, cognitive…) di mondi completamente diversi, pur considerandole singolarmente.
«L’obiettivo è avere una visione d’insieme e allo stesso tempo identificare quali sintomi nell’infanzia preannunciano lo sviluppo di malattie psicotiche, così da intervenire in tempo col trattamento più adeguato. Sapremo così quale battaglia combattere», spiega alla Regione Corrado Sandini, ricercatore del dipartimento di Psichiatria della Facoltà di Medicina dell’Unige. «Le analisi classiche riguardano i meccanismi neurobiologici coinvolti nei disturbi psicologici, così come la presenza di alcuni sintomi come allucinazioni e pensieri deliranti. Grazie alla ricerca ora sappiamo che altri variabili sono predittive come stati ansiosi, disturbi dell’umore, sensi di colpa patologici, una mala gestione dello stress quotidiano», spiega.
Capiamo subito, discutendo con il principale autore dello studio, che per questi bambini geneticamente più fragili, l’ansia gioca un ruolo determinante ed è considerato un importante segnale di allarme. «Analizzando le traiettorie cliniche abbiamo scoperto che un bambino ansioso su dieci ha più probabilità di sviluppare queste psicosi. Nel tempo, lo stato ansioso deteriora la capacità di gestire lo stress quotidiano costituendo un terreno molto fertile per disturbi psicotici».
Vanno limitate le situazioni di stress che si possono evitare e quando ciò non è possibile bisogna sorvegliare che non ci sia un’evoluzione negativa. Ci sono poi strategie che aiutano a gestire lo stress.
Molti bambini possono essere intimoriti soprattutto quando devono uscire dalla loro ‘zona comfort’ per affrontare nuove situazioni. Qui, tanto per intenderci, non stiamo parlando del timore, piuttosto diffuso, di andare una settimana in passeggiata scolastica o di un brutto voto al test di matematica. «Si tratta piuttosto di un’ansia eccessiva rispetto al contesto vissuto che ha un impatto molto disfunzionale sul bambino», precisa Sandini. L’ansia è una risposta eccessiva ad eventi stressanti che potrebbe essere anche appresa in famiglia e passare come il latte materno da genitori a figli. «C’è sempre una interazione tra predisposizione genetica e ambiente familiare. Questi bambini sono più suscettibili allo stress ambientale. Sappiamo, ad esempio, che se dovessero vivere situazioni di bullismo a scuola, questa esperienza rischia di scatenare una traiettoria psicotica. Intendiamoci, il bullismo non fa bene a nessun bambino», precisa. Evidentemente non si può mettere questi bambini sotto una campana di vetro, perché lo stress fa parte della quotidianità. «Questa conoscenza ci guida nella pratica clinica. Nel loro caso, vanno limitate le situazioni di stress che si possono evitare e quando ciò non è possibile bisogna sorvegliare che non ci sia un’evoluzione negativa. Ci sono poi strategie che aiutano a gestire lo stress».
Un’altra pista (ma qui il condizionale è ancora d’obbligo) riguarda un malfunzionamento ormonale e più precisamente del cortisolo. «In questi bambini, l’ormone rilasciato in situazioni di stress che serve a gestire le risposte dell’organismo, funziona in modo diverso. Non sappiamo ancora se sia una causa o una conseguenza. L’ipotesi è che una iperattivazione a lungo termine di questo sistema ne possa compromettere la funzionalità. Aiuterebbe poter misurare con strumenti poco invasivi (come ad esempio il test della saliva) il tasso di cortisolo rilasciato nel corpo».
Insieme all’ansia, continua il ricercatore, spesso è presente in giovane età, una leggera distorsione del pensiero (come essere particolarmente sospettosi verso gli altri, sentirsi minacciati senza reale motivo), un mal funzionamento sociale. «Quando i ragazzi non riescono più a funzionare nell’ambito scolastico e nell’interazione con gli altri, si delinea per loro un’evoluzione negativa. Bisogna intervenire prima».
Allo stesso modo, continua il ricercatore ginevrino, la tristezza, che col tempo diventa un senso di colpa, è un altro sintomo molto importante. «Frequenti cali dell’umore, tristezza, poca gioiosità, non sono in generale segnali incoraggianti. In particolare, lo studio ha però evidenziato la correlazione tra una futura psicosi e frequenti sensi di colpa patologici ingiustificati. Spesso nascono da una riflessione errata, può essere l’inizio di un pensiero illogico». Anche in questo caso prevenire significa proteggere questi giovani da dinamiche di colpevolizzazione eccessiva: «Meglio valorizzare i loro risultati, per di più il rinforzo positivo è spesso più efficace».
La ricerca continua. Guardando al futuro, i ricercatori prenderanno in considerazione altre variabili. «Continuiamo con le valutazioni cliniche su questi bambini ed i loro fratelli ma allarghiamo lo spettro ad altre variabili, come ad esempio la qualità del sonno, la quantità di cortisolo rilasciato nel corpo. Entrambi segnali aggiuntivi che potrebbero svolgere un ruolo importante».
Prima di chiudere, chiediamo al nostro interlocutore come emerge e viene diagnosticata questa fragilità genetica. «I pediatri o alle volte i genitori possono accorgersene da alcuni sintomi, questi bambini possono avere una malformazione del palato o cardiaca, un viso leggermente dismorfico e in media anche un leggero ritardo cognitivo. Alcuni casi sono diagnosticati in utero a causa delle malformazioni cardiache, altre alla nascita o più tardi oppure mai. Circa metà dei casi non viene diagnosticato», conclude il ricercatore.