Genitori indebitati inseguendo promesse di guarigione, talvolta ingiustificate, all’estero per curare i figli. C’è chi parte, molti arrivano qui
La storia del giovane luganese Davide Leonelli affetto da sarcoma, ha commosso il Ticino. In pochi giorni sono stati raccolti, oltre 350 mila franchi, per una terapia sperimentale a New York usata in uno studio clinico. Tanta solidarietà è un bel gesto di altruismo, non nuovo in Ticino. Chi è malato forse si sente meno solo contro il tumore che non risparmia né ricchi, né poveri, né giovani, né meno giovani. Davide purtroppo non ce l’ha fatta. Ma ogni giorno, altri Davide vivono gli stessi drammi. Tante famiglie lottano cercando di trovare la soluzione migliore in un campo dove, di regola, si ignora tutto. Ci si deve fidare dei professionisti. Chi è in prima linea vede aumentare il pendolarismo delle cure. Tra pancia e testa, ci chiediamo quanto questi ‘viaggi’ siano efficaci, quali cure non si trovano effettivamente in Svizzera, perché non ci sono, come vengono sostenuti questi pazienti in queste difficili scelte. «Sulle nostre scrivanie arrivano regolarmente richieste e telefonate da parte di familiari di pazienti oncologici che vogliono venire in Svizzera a curarsi. Meno frequentemente bussano alla nostra porta anche pazienti che chiedono aiuto per cure innovative all’estero. Quando si tratta di ‘viaggi della speranza‘ non possiamo dare un sostegno, perché si parla di cifre molto importanti», ci spiega Alba Masullo. Dirige la Lega cancro Ticino che sostiene ogni anno oltre mille ammalati. Lo fa in tanti modi, con aiuti finanziari concreti (nel 2020 sono stati erogati 343’000 franchi per alleggerire il peso delle fatture da pagare), con un accompagnamento amministrativo, con un supporto psicosociale per ammalati e familiari. In Ticino ogni anno 2’200 persone ricevono una diagnosi di tumore e poco meno di 10 mila persone convivono con un tumore. Non sono pochi. Tra loro, pazienti di tutte le età.
Perché in casi eccezionali non aiutare anche chi, dopo averle tentate tutte, tenta la cura sperimentale all’estero? «Ogni volta ci documentiamo ed i professionisti ci spiegano che nel 99% dei casi le cure disponibili all’estero, lo sono anche in Svizzera; sono veramente rarissimi i casi dove oltre oceano c’è qualcosa che qui non c’è». Insomma quello che è possibile altrove, lo è spesso anche in Svizzera. «Anche la Lega svizzera contro il cancro non finanzia viaggi della speranza. Capiamo e rispettiamo il bisogno di aggrapparsi alla speranza di una cura innovativa e anche di contribuire a questo percorso come comunità. Tutto ciò è umano ed è comprensibile soprattutto quando il paziente è giovane. Si vorrebbe sempre fare qualcosa – e a titolo privato spesso lo facciamo – ma come ente gestendo fondi che provengono anche da donazioni dobbiamo valutare ogni richiesta con precisione e rigoroso realismo».
L’associazione è sollecitata anche da stranieri che vogliono curarsi in Svizzera. Le terapie sperimentali di regola sono gratuite, ma ci sono altri costi da onorare. «In alcuni casi abbiamo contribuito alle spese per il sostentamento con importi non risolutivi, oppure segnaliamo fondazioni che possono dare anche loro una mano. L’empatia verso queste situazioni è viva e presente così come la frustrazione di non poter far nulla di risolutivo per i viaggi della speranza», conclude Masullo.
Anche all’ospedale Chuv di Losanna, chi è in prima linea si trova spesso confrontato con decisioni difficili quando le terapie tradizionali non funzionano. «Penso sia umano cercare il posto migliore per curarsi, ma è altrettanto importante sapere quando fermarsi. Per noi curanti è determinante instaurare una buona relazione col paziente; se c’è fiducia, anche nei momenti più difficili, tutto funziona meglio», spiega il dottor Francesco Ceppi, emato-oncologo pediatra. Dopo varie esperienze cliniche e di ricerca in Nordamerica, il locarnese è impiegato all’ospedale Chuv di Losanna, dove si occupa di leucemie, linfomi e immunoterapia. La trasparenza è alla base di ogni buon rapporto. «Vediamo famiglie che dicono basta, non ne vogliono sapere di cure sperimentali e pensano a trascorrere bene e insieme il tempo che resta mentre altre vogliono andare avanti se ci sono adeguati studi clinici». Partire è l’eccezione, ma succede. «Purtroppo è anche capitato di rimpatriare d’urgenza pazienti affetti da leucemia molto debilitati dopo le cosiddette ‘terapie non note’ in Germania e vedere genitori indebitarsi per tutta la vita inseguendo promesse di guarigione non giustificate provenienti spesso da cliniche private estere», mette in guardia l’oncologo.
Ma c’è soprattutto un flusso inverso, chi vede nella Svizzera una sorta di terra promessa dove troverà ogni soluzione. «Certo, le richieste di pazienti esteri, sono tante e non sempre sono giustificate da trattamenti realmente migliori. Quando lavoravo negli Stati Uniti, osservavo ad esempio che le famiglie ispaniche avevano una credenza ben radicata: farsi curare negli ospedali Usa dove nessuno muore. Nemmeno in Svizzera siamo onnipotenti», aggiunge con un tocco di ironia. Il medico conosce la realtà sanitaria del Sudamerica essendo copresidente dell’Associazione per l’aiuto medico al Centro America (Amca) in Ticino. Il punto è che cosa sia meglio per queste realtà, investire e aiutarli a sviluppare una medicina di qualità a casa loro e per tutti o farli venire singolarmente a curarsi, facendo di fatto grosse discriminazioni. “Perché aiutare un paziente e non il suo compagno di camera?”.
«Partecipare a studi clinici con terapie sperimentali può essere positivo per il paziente e per chi in futuro potrà beneficiare, se funzionano, di queste nuove cure. Detto questo, fondamentale è una buona informazione: non bisogna mai ‘vendere’ una terapia per quello che non è, e forse non sarà mai. Purtroppo, nonostante tanti progressi negli ultimi anni, in oncologia il tasso d’insuccesso dei nuovi farmaci è ancora elevato; si calcola che solo il 10-15% delle nuove terapie che entrano in sperimentazione clinica iniziale si mostrano efficaci; quindi, 8 casi su 10 non hanno successo. Questo va spiegato con molta trasparenza ai pazienti per non creare false illusioni. Tra loro c’è chi viene anche da lontano. Allo stesso tempo non va smorzata la speranza. Informare i pazienti usando le conoscenze scientifiche e dando loro il tempo di riflettere sulla possibile partecipazione in un protocollo sperimentale sono aspetti fondamentali». A parlare è il dottor Anastasios Stathis medico caposervizio responsabile degli studi di fase I (passaggio dal laboratorio all’uomo) e responsabile medico della Ricerca Clinica dell’Istituto Oncologico della Svizzera italiana (IOSI). Nella Unità che dirige i pazienti possono ricevere terapie con farmaci sperimentali, cioè ancora in fase di studio. Sono una ventina l’anno le persone che vengono dall’estero per un consulto riguardo la possibile partecipazione ad uno studio di fase I.
Al medico non piace il termine ‘viaggi della speranza’. «Mi sembra abbia una connotazione negativa. Tra i nostri pazienti c’è effettivamente chi non è guarito con le cure classiche, ma sempre più la terapia sperimentale viene offerta anche in uno stadio più precoce della malattia», precisa.
‘Chi è in uno stadio avanzato della malattia deve soppesare come vuole trascorrere gli ultimi periodi della sua vita e per farlo deve essere ben informato su che cosa lo aspetta’
Chi partecipa ad uno studio clinico di fase I, continua il medico, lo fa per due motivi: «Per ottenere un beneficio personale e per contribuire a nuove cure per altri pazienti. Oggi sia in Europa che in America la qualità delle cure si equivale. Per quei farmaci che influenzano la sopravvivenza le vie di approvazione sono generalmente altrettanto rapide nei vari paesi. Per quanto riguarda gli studi clinici, stiamo lavorando per poterne avere sempre più così da poter offrire questa possibilità ai nostri pazienti», precisa. Ai medici, spettano decisioni molto delicate, può essere molto difficile mediare tra razionalità ed emozioni, e tenere il timone nella giusta direzione. «Cerchiamo di fare del nostro meglio motivati dal trovare la soluzione migliore per il paziente e per la ricerca di nuove cure. Spesso siamo i primi a decidere che per un paziente non è la soluzione migliore partecipare ad un protocollo. Chi è in uno stadio avanzato della malattia deve soppesare come vuole trascorrere gli ultimi periodi della sua vita e per farlo deve essere ben informato su che cosa lo aspetta», conclude il medico.