Intervista al professor Guido Samarani: ‘All'inizio c'erano solo 55 iscritti, un'ideologia che lì resiste perché sa cambiare forma nel tempo’
Cent'anni fa, in questi giorni, nasceva il Partito Comunista cinese (Pcc): aveva solo 55 iscritti. Oggi quel partito, che per convenzione festeggia se stesso il primo luglio, è uno dei pochi che resiste - a modo suo - a un'ideologia che, alla prova dei fatti, si è dissolta ovunque. Ne abbiamo parlato con il professor Guido Samarani, direttore del centro di ricerca Marco Polo di Ca’ Foscari, a Venezia, che sta scrivendo (a quattro mani) un libro sulla storia del Partito Comunista cinese.
Professore, un mese fa abbiamo assistito a celebrazioni in grande stile in Cina per i 100 anni del Partito Comunista. A cosa servono?
Sono arrivato la prima volta in Cina, nel 1976, da studente di Ca’ Foscari. Era il giorno dopo la morte di Mao Tse-tung, da quel momento in poi ne ho viste di parate e celebrazioni. Quest’anno, col centenario, il valore simbolico - politico e d’immagine - è molto più forte del solito. Ma is lancia sempre un messaggio all’interno e all’esterno. All’interno è l’auto-rappresentazione del Partito che ha portato alla vittoria la Repubblica Popolare cinese, che ha salvato la Cina dai disastri degli anni '30 e '40 e dalla guerra, il partito che è garanzia che la Cina non tornerà più al passato, alla miseria e alla paura della minaccia imperialista. Ovviamente è anche un messaggio verso l’esterno: "Siamo forti, uniti, pacifici, ma determinati. Non ci faremo intimidire da nessuno". Lo ha detto recentemente anche Xi Jinping.
Cos’era il comunismo in Cina nel 1921?
Allora gli iscritti erano 54-55, ora sono più di 90 milioni. Allora la popolazione era di 400-500 milioni, ora sono 1 miliardo e 400 milioni. Se si fanno la percentuali c’è comunque una bella differenza. D’altronde il partito è un’avanguardia, e negli ultimi anni con Xi Jinping è diventato molto più difficile essere ammessi.
Come si entra nel Partito?
Generalmente in questi decenni bisogna essere raccomandati da un certo numero di iscritti, poi c’è un periodo di transizione, chiamiamolo di vigilanza. Un controllo sul comportamento sociale e sulla fedeltà al partito. Dalle stime che ho, solo il 10-15% viene ammesso. Ti iscrivi per tanti motivi: c’è chi lo fa per ottenere vantaggi personali, politici, economici, legami col mondo del potere, oggi molto più che allora. Però è interessante che l’attuale leader abbia stretto le maglie sottolineando il fatto che con l’arricchimento della Cina ci sono molte più tentazioni e quindi bisogna essere più selettivi. Non a caso il partito ha iniziato un’aspra lotta contro la corruzione. Se lo dicono gli stessi comunisti cinesi, dobbiamo crederci.
Ma il comunismo cinese si può ancora definire tale? C’è chi ormai lo chiama capitalismo di Stato.
Il partito conferma, con gli adattamenti del caso, di essere un partito comunista. Ribadisce i suoi legami col marxismo, il leninisimo e col pensiero di Mao, con tutti gli aggiornamenti degli ultimi decenni come il socialismo con caratteristiche cinesi e il mercato socialista. Questi cambiamenti danno un’idea di come il Pcc abbia saputo, pur senza fare niente di miracoloso, raggiungere i suoi obiettivi, il primo: sopravvivere. Resistere cent’anni in queste condizioni, in cui la gran parte dei partiti comunisti sono scomparsi, non è poco. Ci sarà anche un po’ di casualità, ma vuol dire avere una capacità complessiva non solo di governare, ma anche di superare i momenti di crisi. E i cinesi ne hanno conosciuti parecchi, anche drammatici.
Quali sono stati i veri punti di svolta?
Durante il periodo di Mao, leader incontrastato dal 1949 al 1976, direi la fine degli anni ’50 con il Grande Balzo in avanti, la crisi economica e la carestia. Poi la seconda parte degli anni ’60, con la Rivoluzione culturale che ha portato anche lotte politiche e personali che hanno coinvolto gli studenti, le masse. È stato un periodo di estrema turbolenza e incertezza politica. Ma anche gli anni ’70 sono stati delicati: c’era ancora l’onda della Rivoluzione culturale e soprattutto Mao era malato, con una lotta aspra per la successione. Poi il ritorno di Deng Xiaoping, che era stato allontanato da Mao, ma è stato poi capace di rimettere la barra su quelli che erano gli obiettivi principali del partito: trasformare la Cina da Paese arretrato, povero e marginale sul piano internazionale in quello che è in gran parte adesso, più prospero, più sviluppato, piú moderno e più rispettato negli affari regionali e internazionali. Poi ovviamente Tienanmen, nel 1989, legata a tutta la crisi del cosiddetto socialismo reale, la fine dell’Urss, il Muro di Berlino, un biennio che fu un vero choc.
Come ne sono usciti?
Con grandi capacità di adattabilità e flessibilità. I comunisti cinesi, sono stati praticamente gli unici a uscirne. Certo c’è stata una componente militare e repressiva, sarebbe sciocco nasconderlo. Ma una volta superato quel momento c’è stato tutto il processo di ricostruzione politica. Hanno capito che dovevano trovare una sintesi tra apertura al mondo esterno - che per alcuni aveva portato ai fatti di Tienanmen - e lo sviluppo interno con elementi di controllo e di guida da parte del partito del percorso di sviluppo e ammodernamento. Oggi, con Xi Jinping, quelle idee degli anni Ottanta sono state portate a un livello di forza, rigidità e radicalità superiori.
È una leadership salda quella di Xi? Si immagina possa rimanere lì a vita come capitava un tempo o come accade ancora oggi a certi eterni leader africani?
Questa è la Cina, un Paese diverso con una tradizione millenaria di civiltà e un partito al potere con cent’anni di esperienza. Essendo un sistema politico relativamente poco trasparente è difficile fare calcoli sufficientemente certi, ma nel breve periodo non vedo grossi rischi per il Pcc e la leadership attuale. Hanno una serie di elementi di forza e coesione che non vuol dire unanimità - perché ci sono differenze tra gruppi, personalità, sensibilità e interessi - ma fino a quando riusciranno a mantenere una larga e sostanziale unità non avranno problemi.
E sul medio e lungo periodo?
Questa è una scommessa più azzardata, dipende anche molto da come riescono a risolvere i vari problemi interni, ma anche dal clima internazionale. Bisognerà vedere nei prossimi mesi e anni come funziona la nuova strategia di sviluppo economico che hanno avviato nel 2020, puntando sul consumo interno e sull’acquisizione di un’autonomia scientifica e soprattutto tecnologica. Se si leggono i documenti e si va oltre al linguaggio politico cinese, criptico e poco comprensibile, si capisce che uno dei fattori principali, se non il principale, per cui stanno cambiando la strategia di sviluppo di crescita, è dovuta al peggioramento della situazione internazionale, Stati Uniti in primis. L’irrigidimento nelle relazioni internazionali potrebbe essere destinato a crescere, ma se dovesse affievolirsi potrebbe esserci una riapertura e un recupero di stili politici più adatti a una grande potenza.
Ma è un vantaggio o svantaggio per la Cina comunista avere un Paese così grande?
È chiaro che porta opportunità, ma è soprattutto un grosso problema. Pensiamo a quanto sia difficile governare l’Italia o la Svizzera, soprattutto di questi tempi. Ora portiamo le stesse criticità su un territorio di 10 milioni di chilometri quadrati con un miliardo e 400 milioni di persone. La narrativa ufficiale parla di grande unità politica e in parte è anche vero, ma è un Paese per forza di cose frammentato, il Nord e il Sud sono mondi diversi, ci sono 56 minoranze etniche, abbiamo Shanghai con tutte le tecnologie più avanzate e zone interne rimaste ferme a decenni fa: è un magma complesso. Ovviamente vuol dire anche disporre di una forza lavoro immane, e ora anche di consumatori. Il Pcc cerca di sottolineare la stabilità di questo Stato così enorme e differenziato, ma i problemi e le disuguaglianze ci sono. Se si leggono i rapporti del Parlamento cinese emerge il quadro di un luogo estremamente vitale, ma anche pieno di contraddizioni, scioperi, lotte, rivendicazioni, con forti elementi di instabilità che vanno governati con grande attenzione. Un Paese stabile, ma non fermo.