Sempre più famiglie non sanno più come togliere gli adolescenti dai videogiochi. Gli errori dei genitori e il vissuto dei ragazzi. La parola agli esperti
Dopo aver chiesto per sette volte e inutilmente a suo figlio Giulio, 16 anni, di concludere il videogioco e andare a dormire, mamma Giovanna, esasperata dal menefreghismo dell’adolescente, decide di staccare la spina della Playstation. La reazione di Giulio la lascia di stucco: “È diventato aggressivo, mi ha dato una sberla e mi ha spinta con violenza a terra. Quello non era mio figlio. In quel momento ho capito che avevamo bisogno di aiuto, da sola non vedevo una via d’uscita”, racconta la madre con un misto di frustrazione e vergogna. Qualche segnale c’era stato, ma i genitori di Giulio non li hanno colti, finché la sua dipendenza digitale è diventata un grosso problema per tutta la famiglia. “Penso che il primo errore sia stato quello di concedergli il wifi in camera. Da allora non siamo più riusciti a imporgli delle regole. Passava sempre più tempo in camera a giocare, penso anche di notte. Di mese in mese è diventato più scontroso, ha mollato il calcio, a scuola il rendimento è precipitato. Abbiamo scoperto che bigia le lezioni per giocare e se è in classe è molto assonnato. Aveva un’amichetta ma non l’abbiamo più vista ed non esce quasi più con gli amici. Sta in camera sua. Raramente compare per cena, solitamente mangia in camera ad orari irregolari con snack poco sani”. Giovanna, 45 anni, sente tutto il peso dell’impotenza e si chiede come si è arrivati a questa guerra fredda. Lei lavora a metà tempo, suo marito è impegnato fuori casa tutto il giorno. Giulio e la sorella Miriam (12 anni) non avevano mai dato problemi. “A 10 anni, Giulio ha ricevuto la Playstation, a 12 lo smartphone, faceva quei videogiochi ‘sparatutto’ (come Call of Duty e Fortnite). Andava bene a scuola, aveva tanti amici. Era solare e allegro. Con il passare degli anni i videogiochi l’hanno come risucchiato nel loro mondo. Il rendimento a scuola è calato e fissare dei limiti è diventato impossibile”. La situazione esplosiva si ripercuote anche sulla coppia. “Con mio marito ci sono molti conflitti su come affrontare la situazione. Su una cosa siamo concordi, non vediamo una via di uscita e siamo molto preoccupati”. Lo scatto d’ira e la violenza dell’adolescente ha spinto sua madre a chiedere aiuto e rivolgersi, come tanti altri genitori, allo psicologo Dario Gennari, attivo presso lo Studio medico Rete Operativa, già membro del Gruppo esperti federale ‘Nuove dipendenze – Internet’ dell’Ufficio Federale della Sanità Pubblica (BAG) e e presidente del Gruppo Azzardo Ticino - Prevenzione (GAT-P).
“Purtroppo non è l’unico caso di aggressività, sia verbale, sia fisica, che vediamo verso i genitori da parte di adolescenti con un uso problematico di videogiochi, il cui obiettivo è soprattutto tenerti legato al gioco. L’abuso può favorire aspetti compulsivi che rendono difficile interrompere l’esperienza di gioco che si basa su un principio di piacere e appagamento regolato nel nostro cervello. Sono gli stessi meccanismi presenti nelle altre dipendenze”, ci spiega l’esperto. La situazione più esplosiva spesso è la cena. Il genitore chiama e l’adolescente non si stacca dal videogioco. “Staccare la spina significa interrompere una potente attività ludica, far perdere i punteggi raggiunti, bloccare all’improvviso un’azione compulsiva. La reazione può essere violenta come per Giulio. Purtroppo vediamo sempre più casi. Molti genitori mi dicono che non riconoscono più i loro figli ed, in un certo senso, hanno ragione. Certi videogiochi particolarmente immersivi possono causare un’alterazione di coscienza che proietta il giovane distante dalla realtà”.
Uscirne si può, ma vanno coinvolti tutti (giovane e genitori) iniziando a mettere limiti verosimili e facendo un passo alla volta.
La dipendenza da videogiochi si mangia ogni pensiero e ogni relazione: si stima riguardi 1% della popolazione, mentre molto più diffuso è il rapporto problematico coi videogiochi, di regola riguarda preadolescenti e adolescenti. Non è solo una questione di quante ore si passa davanti ad un videogioco violento, ma come questa esperienza può trasformare un giovane. “I genitori non devono sottovalutare alcuni segnali come la difficoltà a smettere di giocare, una maggiore scontrosità, atteggiamenti di tipo compulsivo, una maggiore ansia generalizzata, cali di rendimento scolastici o lavorativi, perdita d’interesse per le relazioni (coi famigliari e amici) e per attività ludiche come sport, cinema, concerti”. Certo che questi tratti possono essere anche legati all’adolescenza. Può inoltre emergere un aspetto che desta particolare allarme: “Il ritiro sociale: non uscire più o quasi dalla camera, smettere di praticare attività che in precedenza davano gioia come stare con gli amici”. Il gap generazionale non aiuta. “L’ignoranza digitale crea distanza tra genitori e figli. Reazioni del tipo ‘sono stupidate, perdi solo tempo’ non tengono in considerazione il punto di vista dell’adolescente”, precisa. Veniamo agli errori più classici dei genitori: “Sicuramente concedere il wifi nella camera di un adolescente: se lo si fa con un 12enne, quando ne ha 15 non si entra più in camera sua. Non mettere limiti nell’uso dei dispositivi digitali. Non avere una linea comune. Succede spesso che un genitore concede tutto e l’altro mette le regole: questo non va bene per un adolescente”, precisa.
Quando un genitore bussa alla porta dello psicologo, spesso la situazione è già sfuggita di mano. “Proponiamo un approccio multidisciplinare denominato ‘eMotivare’ che coinvolge una rete di professionisti: un pediatra evolutivo (il dott. Valdo Pezzoli, primario all’Istituto pediatrico della Svizzera italiana, Eoc) ed un educatore specializzato (Emanuele Guaia) per aiutare l’adolescente, mentre lo psicologo (Dario Gennari) che si occupa della coppia genitoriale. Il primo passo è abbassare la tensione in famiglia, sostenere i genitori, capire perché l’adolescente ha un rapporto problematico col gioco, renderlo consapevole di ciò che sta succedendo, considerando la sua storia personale e famigliare, ma anche gli aspetti cognitivi ed emotivi in un’ottica sistemico-famigliare”, conclude.
Coltivano soprattutto amicizie in rete e si sentono degli eroi quando indossano un avatar come una seconda pelle, dentro giochi virtuali studiati apposta per tenere legato chi ci entra. Alcuni si perdono in questi mondi, dove la gratificazione è enorme. L’educatore Emanuele Guaia, esperto in dipendenze dai nuovi media, incontra e aiuta questi ragazzi a fare un quadro della loro situazione in merito all’argomento, attraverso un percorso di 6-8 incontri all’Istituto pediatrico della Svizzera italiana dell’Ente ospedaliero cantonale, sempre più sollecitato da genitori preoccupati. “In una prima fase analizzo con l’adolescente il suo stile di vita, l’obiettivo è capire quante ore la settimana passa sui videogiochi, quale rete relazionale ha attorno e come occupa la sua giornata. Quando ci sei dentro perdi la cognizione del tempo. Magari mi dicono 3 ore al giorno, ma spesso la realtà è ben diversa e si può arrivare a giocare per tempi lunghissimi, nei casi più delicati invertendo anche il giorno per la notte. Per loro è importante diventare consapevoli del tempo reale che trascorrono in rete”, spiega. Ancora più rilevante è la vita sociale del ragazzo fuori dal mondo virtuale. “Per chi soffre di gioco problematico le attività sociali e ludiche si riducono, fino a non uscire più dalla camera. Non ci sono profili più a rischio di altri, lo siamo tutti potenzialmente. I primi segnali da non sottovalutare sono saltare i compiti, non dormire, bigiare la scuola o avere una scarsa cura verso di sé: tutto per guadagnare prezioso tempo di gioco”.
Più ci stai, più hai voglia si starci e si perde facilmente la nozione del tempo. Scivolare dall’uso all’abuso purtroppo è facile, soprattutto quando si è molto giovani e nessuno mette dei limiti. “Alcuni adolescenti mi dicono che vorrebbero uscire con gli amici, andare a mangiarsi un gelato e fare due chiacchiere in gruppo, ma i loro amici sono nella piazza virtuale e allora anche loro ci vanno”. Una volta fatto il battesimo del virtuale, si aprono molti mondi, ciascuno con le proprie peculiarità. “Alcuni ragazzi raccontano che per la prima volta si sentono onnipotenti, infatti alcuni videogiochi permettono di creare un proprio mondo ideale, costruire un personale Avatar che li rappresenta per davvero. Altri si sentono più apprezzati in rete (perché sono i più bravi e veloci ad uccidere il nemico) che nella realtà, compensano la frustrazione di un brutto voto in matematica con le abilità virtuali. Soprattutto i preadolescenti sentono molto il peso delle prestazioni richieste e faticano a gestirle. Dovono poi fronteggiare grossi cambiamenti legati all’età perché entrambi i genitori passano molto tempo fuori casa o sono presi da dinamiche familiari delicate e difficili”.
Sempre dal punto di vista dei ragazzi, gli scatti d’ira verso i genitori sono giustificati in questo modo. “Quando la mamma li chiama per la cena, loro devono lasciare un mondo ideale per rientrare in un contesto che possono percepire come faticoso. Non ne hanno voglia. Se poi un genitore esasperato stacca la presa o strappa i fili, la risposta può essere violenta”. La spiegazione è più biologica che psicologica. “Questi giochi attivano a tal punto il cervello da non riconoscere che l’azione ripetitiva è in un mondo virtuale. Si attivano reazioni fisiologiche di allerta (ad esempio scariche di adrenalina) come se il giovane fosse in un contesto reale di guerra. Questa dinamica, vissuta in maniera continuativa e ripetuta nel tempo, può farli esplodere con più facilità, come una pentola a pressione, sfogando ciò che hanno accumulato su oggetti o, in alcuni casi, anche sulle persone”.
Il consiglio dell’educatore è quello di informarsi su giochi dei figli, un primo passo è leggere attentamente la carta di identità del videogioco (PEGI), che c’è dietro la custodia. “Alcuni genitori si sentono tranquilli quando il figlio è a casa e gioca alla Playstation, ma non sanno nulla, ad esempio della rete di relazioni virtuali che li coinvolge. Occorre accompagnare i nostri ragazzi e talvolta far loro da filtro verso ciò che vivono virtualmente per evitare di lasciarli da soli in questo mondo mutevole e, a volte, sconosciuto”, conclude Guaia.
Si chiama iperconnettività, quando non si riesce a resistere all’impulso di connettersi per navigare, chattare, giocare. “È un impulso incontrollabile, anche di fronte a ripercussioni negative come, ad esempio, trascurare amici, partner, studio fino ad un pericoloso isolamento sociale; ma anche forti mal di testa e insonnia. Piano piano le relazioni nel web tendono a sostituire quelle reali favorendo un senso di onnipotenza, di vissuti di depersonalizzazione ed una tendenza al controllo dell’altro, piuttosto che alla condivisione”, spiega lo psicologo Dario Gennari. Soprattutto in adolescenza, può essere molto allettante fuggire in un mondo virtuale, dove sentirsi un eroe, dove vivere una vita parallela più gratificante, ma distante dalla realtà. “Non necessariamente è problematico, ci sono anche aspetti positivi come i giochi di ruolo, il contesto fantasy, ma il grosso rischio per alcuni adolescenti è sentirsi apprezzati solo nel mondo digitale, distanziandosi sempre più da quello concreto”. Stiamo parlando di una fase delicata della crescita, dove si mettono i mattoni della propria identità. “Il rischio per alcuni è quello di sviluppare una notevole discrepanza tra identità reale (solitamente mediocre) ed identità virtuale (positiva e gratificante), compensatoria rispetto alla vita reale. L’autostima si alimenta nel mondo virtuale costituendo contemporaneamente una forma di protezione per la propria identità ma anche il motivo per allontanarsi, in certi casi definitivamente, dalla realtà ormai connotata da frustrazioni e relazioni conflittuali”. Capire quale significato riveste il gioco per l’adolescente con un problema di abuso è un passo importante (che siano meccanismi compensatori, riconoscimento da parte di terzi, costruzione di un’identità alternativa, gioco di gruppo...).
I primi a rendersi conto che qualcosa non va sono i famigliari. “Spesso i diretti interessati non percepiscono nulla di anomalo, negano che c’è un problema ed è quindi importante che i genitori reagiscano”.
Anche la ricerca sull’evoluzione del cervello ci aiuta a capire perché gli adolescenti sono più a rischio. “La regione limbica che sovraintende i meccanismi emotivi giunge a maturazione verso i 15 anni, mentre la regione della corteccia prefrontale che regola la capacità di analisi (ciò che è giusto e ciò che è sbagliato) giunge a piena maturità sui 25 anni. Questo spiega l’impulsività caratteristica dell’adolescenza”.
Videogiochi costruiti per tenerti legato sfruttando meccanismi psicologici di affiliazione, come la ricompensa positiva (più se ne riceve, più si ripete l’azione), proprio come un topolino sulla ruota. I premi nei primi minuti di gioco servono a questo, ad una gratificazione immediata che porta a ripetere l’azione e può creare dipendenza. Processi veloci, gratificazioni istantanee possono favorire fenomeni compulsivi.
Mentre i videogiochi che vanno per la maggiore (come Fortnite o World of Warcraft) fanno leva sul bisogno degli adolescenti di fare gruppo, di essere riconosciuti come leader. Come resistere se nella vita reale si fatica ad inserirsi in un giro di coetanei? Strategie di marketing e tecniche psicologiche che agiscono su processi profondi della mente, attivando scariche dell’ormone del piacere. “Il tutto ampliato dalla possibilità illimitata di navigare attraverso diversi dispositivi elettronici (smartphone, tablet, PC) garantendo immediatezza, anonimato (più presunto che reale), favorendo isolamento sociale”, precisa Gennari.