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Philippe Blanc, Mario Casella: cosa si sa della ‘Pandemia’?

Un anno dopo, sulle tracce del virus in un documentario Rsi per la Ssr in onda domenica 21 febbraio in ‘Storie’. L'intervista ai due registi

Mario Casella (sx) e Philippe Blanc

Un anno dopo, sulle tracce del virus in un documentario Rsi per la Ssr in onda domenica 21 febbraio in ‘Storie’. L'intervista ai due registi

20 febbraio 2021
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“Nel mondo ci sono state in egual numero pestilenze e guerre e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati” (Albert Camus – La Peste, 1947). È un mero copia-incolla da un best seller del primo lockdown, uno screenshot che nulla svela, ma tanto dice, di quanto si capirà novanta minuti più tardi, alla fine di ‘Pandemia’, una produzione Rsi per la Ssr nella quale Philippe Blanc e Mario Casella raccontano un anno di pandemia. Chiedendosi quanto ci chiediamo, a intervalli regolari, anche noi: cosa ne sappiamo? Sappiamo che il 25 febbraio dello scorso anno, un uomo a oggi ancora ‘blurato’ (dal volto nascosto digitalmente per la paura di essere chiamato ‘untore’), fu il Paziente Uno della Svizzera, e ci diceva che il Covid-19 era arrivato anche da noi. Quello che è successo dopo è stato ampiamente raccontato ed è storia tutta da scrivere; quello che non è stato raccontato, lo raccontano i due registi ticinesi.

‘Pandemia’ debutta in ‘Storie’ domenica 21 febbraio in prima serata. Sarà anche su Play Suisse in italiano, francese e tedesco, prima di approdare su Rts il 24 febbraio e su Srf il giorno dopo. ‘Pandemia’, ancora, ha l’estrema chiarezza che aveva guidato Philippe Blanc nella Genova fresca di tragedia, il Ponte Morandi crollato e raccontato al ritmo del montaggio di Andrea Levorato nel documentario ‘43. Il Ponte spezzato (The Bridge)’, premio di giornalismo Atg della Svizzera italiana (ne avevamo scritto), vincitore del Prix Italia 71 (altrettanto), Special Mention agli Impact Docs Awards e vincitore del Best International Documentary, Cinemadoc 2020 (e lo scriviamo adesso). Levorato, non a caso, detta i tempi anche in ‘Pandemia’. E non è un caso nemmeno il nostro andare in stampa mentre Repubblica quantifica nel “99%” la percentuale di corrosione del ‘Ponte di Brooklyn dei poveri’ come lo chiamano i genovesi. Del reperto 132, “la parte sommitale del tirante della pila 9”, il cui cedimento fece crollare 200 metri di viadotto, fu la pistola fumante di quell’opera firmata Blanc, prodotta e diffusa da ‘Falò’ il 28 marzo 2019.

Philippe Blanc

'Sempre cercando di non cadere nel senno di poi'

«È iniziato tutto più o meno in maggio. È allora che è arrivata la richiesta dalla Ssr», racconta Philippe Blanc. «Avevo già realizzato il reportage sulla Carità di Locarno insieme ad altri tre colleghi, lavorando alacremente per riuscire a uscire in tempi brevissimi. Una squadra girava e l’altra montava, per permetterci di andare in onda nel giro di una settimana». La richiesta della direzione Ssr arriva, vista con gli occhi di maggio, a cose fatte: «La sensazione era quella di avere perso il treno delle cose importanti. Poi, strada facendo, superato il primo obiettivo, quella sorta di titolo che sarebbe dovuto essere “I cento giorni che hanno cambiato la Svizzera”, e tutto il mondo, ci siamo resi conto che parlare di cento giorni non avrebbe avuto alcun senso. Essendo tutti sulle sabbie mobili, il mandato è cambiato in corso d’opera, così come tutto cambiava costantemente. E la frustrazione è diventata motivazione».

'Quando inizialmente chiedevamo misure più drastiche da Berna ci ridevano addosso' (Raffaele De Rosa, direttore del Dipartimento della sanità e della socialità)

‘Pandemia’ è, secondo Blanc, una sorta di opera prima: «Non credo ci siano molti esempi di collaborazione tra unità aziendali come in questo caso. Ci siamo trovati nella posizione di poter attingere a tanto materiale di Rsi, Rts e Srf da far confluire in un progetto comune». In quel materiale c’erano «il girato e il vissuto di chi aveva ritratto il virus nei mesi precedenti ed era certo che al suo interno ci fosse una storia da sviluppare, tutto questo è tornato di grande utilità».

A regolare le scelte di Blanc e Casella calati su 30 terabyte di registrazioni, un vademecum di ottanta pagine, «una lunga linea del tempo in cui, giorno per giorno, inserivamo i singoli accadimenti». È la timeline della pandemia dal suo inizio a oggi, che ci guida, sotto forma di tunnel, anche a livello visivo. «Ci ha guidati lo stare attenti a non cadere nel ‘senno di poi’, nel dire a posteriori cosa si sarebbe potuto fare, cercando comunque di essere oggettivi. A volte ci siamo ritrovati con degli ‘ordigni’ tra le mani, documenti davvero tosti, ma che riletti con la consapevolezza della differenza tra le conoscenze di allora e quelle di oggi, e pensando a chi ha dovuto prendere decisioni in quel momento, sulla base di ciò che si sapeva in quel momento, rischiavano di diventare uno sterile pretesto d’accusa».

In ‘Pandemia’, pertanto, parlano le ricostruzioni, i pazienti, gli operatori sanitari, i politici – non manca il “Ci ridevano addosso” pronunciato da Raffaele De Rosa nelle ore calde del contagio, riferito alla sottovalutazione di Berna, un giudizio lasciato alle immagini – e la scienza che ha dimostrato, in modalità diverse, e in generale assai prima dell’Organizzazione mondiale della sanità (che dal documentario esce con le ossa rotte) che gli asintomatici erano contagiosi, che il nuovo virus circolava in Europa quattro mesi prima dell’arrivo in Svizzera, e tutto quanto è da vedersi in tv. Compreso il pullman di cinesi a zonzo per la Svizzera mentre ancora la Cina s’interrogava se il coronavirus si trasmettesse davvero da uomo a uomo...

Sono tante le storie di ‘Pandemia’. Se chiedi a Blanc di raccontartene una, cita quella più attuale. «L’incontro con Sandro Cattacin, direttore dell’Istituto ricerche sociologiche dell’Università di Ginevra, che si attende una prossima pandemia non più legata al Covid-19, ma alle dinamiche sociali. Le sue parole mi hanno profondamente colpito». Cattacin è l’unica concessione allo spoiler che ci permettiamo: «Parla di povertà, disagio psicologico – spiega il regista – il cui bilancio è difficile anche solo da abbozzare in questo momento. Ma i segnali, le depressioni e i suicidi, ci sono già e sono allarmanti. Com’è allarmante che uno dei prezzi più alti sia e sarà pagato da quella fascia di popolazione tra i 15 e i 30 anni, fascia che, per assurdo, è la meno colpita dal punto di vista sanitario, ma che paga altrove il rischio e lo scotto. Sono gli anni in cui da individuo dipendente dalla famiglia, il giovane diventa uomo indipendente, un passaggio caratterizzato da tappe fondamentali che quest’anno sono mancate.  

Se invece chiedi a Blanc cosa gli abbia lasciato la storia di Genova, ti risponderà che «l’evento era successo, pur con tutte le incognite del dopo, ma l’atto era concluso». E se gli chiedi cosa gli ha lasciato ‘Pandemia’, invece, ti risponderà che «qui non è concluso nulla, ciò che vale oggi non vale domani. Per dire cosa mi ha lasciato questo lavoro forse è presto, forse ne sono ancora dentro, forse c’è la difficoltà di parlare di qualcosa che è ancora in corso e continua a cambiare».

Mario Casella

'Prima cosa, non ammalarsi'

«Non lavoro più nell’informazione da anni, faccio documentaristica di altro tipo, lavoro a tempo parziale per la Rsi. Ma durante la prima ondata, tra quarantene e gente che si ammalava, alla Rsi servivano figure come la mia. Mi sono annunciato e ho cominciato a uscire, toccando con mano il problema nel momento più drammatico della prima ondata. Nelle case anziani, per esempio. Anche questo mi ha motivato, nel momento in cui mi è stato chiesto di partecipare».

È così che Mario Casella entra, intesa come film, in piena ‘Pandemia’. «Un lavoro complesso a due livelli. In primis, una complessità molto pratica, logistica, e cioè quella di non ammalarsi, perché con Philippe abbiamo viaggiato tanto: il Nord Italia, le prime zone colpite, il Veneto, Codogno, Lodi, in un periodo ancora abbastanza delicato. Le trasferte in Germania, tutta la Svizzera incrociata a più riprese per le interviste». Luoghi e occasioni di rischio ovunque, dal dormire in albergo al prendere un treno. «Tutto questo, ovviamente, non si percepisce durante il documentario, ma ci ha fatto sentire sulla nostra pelle la delicatezza del momento».

La grandezza dei piccoli

Cosa lascia, anche a Casella, un lavoro come questo? Partendo dal racconto meno felice: «Ho avuto poca frequentazione degli ospedali, ma già stando in moviola, visionando, o parlando con i familiari che abbiamo dovuto contattare per avere l’ok alla messa in onda delle immagini che li riguardavano, percepisci la difficoltà di chi, pur guarito, deve gestire i postumi, qualsiasi essi siano. Già il girato trasmette qualcosa di suo». Finendo col racconto positivo, Casella si sofferma sulla parte conclusiva di ‘Pandemia’, che è inevitabilmente speranza allo stato puro: «Mi ha colpito molto la forza della piccola imprenditorialità svizzera. La storia dell’Innomedica, per esempio, due fratelli col papà che faceva il farmacista in una cantina a Berna, e adesso esiste una start up che ha per le mani un vaccino che, un giorno o l’altro, verrà omologato, anche se magari accadrà troppo tardi affinché finisca in tempo utile sul mercato, troppo tardi per trovare un’industria in grado di produrre migliaia di fiale in pochi giorni».

Cita anche i fratelli Cerny e i loro studi sul blu di metilene: «Si sono concentrati sulla cura, sul farmaco ad hoc per chi si ammala che ancora non c’è, il farmaco ideale. Quattro fratelli che ogni domenica, da inizio pandemia, si ritrovano in Skype e ragionano sulla possibilità di trovare una via per la cura della malattia. Questo per dire che, potenzialmente, non esistono soltanto i giganti della farmaceutica e della politica, ma anche le piccole realtà con idee geniali che non trovano il sostegno, l’occasione, la spinta economica. E che per questo motivo, purtroppo, arriveranno in ritardo.

(Foto Philippe Blanc: © Fernez - Foto Mario Casella: © Crealpina)