Il devastante terremoto di quarant'anni fa, nel ricordo di chi ci è passato quando era bambino.
Pubblichiamo un contributo apparso sabato su Ticino7, allegato settimanale a laRegione. Per le immagini dell'epoca ringraziamo di cuore la lettrice Cristina Kopreinig Guzzi, che proprio in Irpinia ha svolto attività di volontariato dopo il terremoto. Le foto sono state scattate da Marco Daldi Piacenza e Greta Lanzani Seregno.
Era una domenica di novembre insolitamente mite anche per quella zona discosta dell’Appennino meridionale. L’inverno in realtà era alle porte e quella bella giornata novembrina non faceva presagire per nulla quello che sarebbe accaduto da lì a qualche ora: borghi appesi sulle colline completamente distrutti, vite strappate improvvisamente e trame di storie familiari mutate di colpo. Era il 23 novembre di 40 anni fa.
All’epoca ero un bambino di undici anni in attesa del ritorno definitivo di suo papà emigrato in Svizzera diciotto anni prima. Nel settembre del 1980, mia mamma con mia sorella di 7 anni e mio fratello di un anno avevano fatto, nelle loro intenzioni, l’ultimo viaggio da emigranti da Affoltern am Albis (Zurigo) verso Montella, in provincia di Avellino. Mio padre sarebbe arrivato per Natale. In quel viaggio di ritorno c’ero anch’io e mi ricordo benissimo l’emozione di attraversare il nuovissimo tunnel autostradale del San Gottardo di cui avevo visto le immagini della festa di inaugurazione in televisione qualche giorno prima. Sì, ero uno dei tanti figli di immigrati italiani che per ragioni, diciamo così contingenti, non avevano potuto seguire i loro genitori in Svizzera. In quel periodo politica e società civile si accapigliavano attorno a una parola che in italiano non esiste, se non come neologismo della parola tedesca Überfremdungs e che suona altrettanto odiosa: Inforestierimento e le iniziative per limitarlo. Il tema, insomma, era sempre quello degli stranieri. Ce n’erano troppi, per alcuni; erano fondamentali per il funzionamento dell’economia, per altri. Un dibattito che si riaccende ciclicamente. Allora erano gli italiani e gli spagnoli presi di mira da quelle iniziative, tanto che i miei genitori, estranei alle vicende politiche in generale, si ricordano ancora benissimo di James Schwarzenbach. Ma questo è un altro discorso.
Per quanto mi riguarda gli anni dal 1972, anno di nascita di mia sorella, fino all’estate del 1980, sono stati un periodo bello di cui ho ancora un vivido ricordo: viziato da nonni, zie e cugine durante l’anno scolastico in Irpinia e straviziato da mamma e papà in occasione di lunghe vacanze estive nella Svizzera tedesca. Insomma, facevo l’emigrante al contrario e il 1980 sarebbe stato l’anno ultimo di questo pendolarismo. Mio papà più volte aveva tentato di convincere mia mamma, sempre tentennante, a fare una scelta definitiva: tutti di qua o tutti di là del confine. I miei, nel frattempo, avevano maturato il diritto al ricongiungimento familiare. Si scelse di ritornare al paese natio con alle spalle 18 anni (contrassegnati da andate e ritorni) di emigrazione mio padre, 10 quelli di mia mamma. Un tempo sufficiente, secondo i loro calcoli, per mettere su casa e qualche risparmio da investire in un’attività in proprio. Era questo il progetto di vita iniziale dei miei genitori che nell’80 - con il metro odierno - erano due ragazzini poco più che trentenni. I miei genitori non erano gli unici in questa situazione: dalle zone più povere del Meridione di allora erano ancora centinaia di migliaia coloro che avevano dovuto prendere il treno verso il Nord, alla ricerca di lavoro e occupazione.
Tutto cambiò quella ‘domenica di novembre’, per citare il titolo di un celebre documentario di Lina Wertmüller per la Rai che racconta in modo egregio il terremoto dell’Irpinia del 23 novembre. In realtà le regioni coinvolte furono due (Campania e Basilicata), mentre le province più colpite tre: Avellino, Salerno e Potenza. I morti accertati 2’914, mentre i feriti più di ottomila e 280mila gli sfollati. Questi dati però dicono poco sul reale impatto di quel sisma, che fu anche e soprattutto sociale.
Alle 19.34 una violenta scossa tellurica con epicentro tra Teora, Castelnuovo di Conza e Conza della Campania, di magnitudo 6,9 sulla scala Richter – un bel botto di 470mila tonnellate di dinamite, per intenderci e del decimo grado, su tredici, della scala Mercalli – sconvolse i piani di molte persone. Compresi quelli dei miei. Io avevo fatto i compiti di scuola e finito di mangiare da poco. Nelle zone interne dell’Appennino del Sud Italia si cena presto, contrariamente all’immaginario collettivo che vede i meridionali ciarlieri e tiratardi. No, gli irpini no. Per noi la cena della domenica è fatta dei resti del pranzo. Se non sono sufficienti si aggiunge mozzarella con un filo d’olio di oliva e un po’ di pane. Ancora oggi è così. I ciarlieri stanno sulle coste, nella polpa, non nelle ‘Terre dell’osso’, quelle asciutte e povere che dal 1860 hanno sempre e solo conosciuto l’emigrazione.
Non c’è una generazione, da allora, che non sia dovuta partire: Americhe, Nord Europa e Australia. Sono parecchi i posti al mondo dove ci sono discendenti di irpini e lucani. ‘O brigante o emigrante’ era il motto che girava nel periodo postunitario, e che per certi versi è attuale ancora oggi.
Quella sera, comunque, questi ragionamenti erano lontanissimi dalla mia testa. Attendevo semplicemente di vedere in televisione, a Domenica Sprint sul secondo canale (Pippo Baudo non mi piaceva proprio), i quattro gol che nel pomeriggio l’Avellino aveva rifilato all’Ascoli. La partita finì 4-2. Ero fortunato. Tifavo una provinciale vincente e che militava in Serie A. Mitico il piccolo brasiliano Juary. Quei gol non li vidi mai. Come nessuno, in Irpinia, vide il secondo tempo - in differita, altra epoca - del big match della domenica calcistica Juventus-Inter.
Ci fu un blackout, la terra cominciò a tremare seguita da un boato fortissimo, come delle esplosioni. Non capivo cosa stesse succedendo. Al buio il mio istinto fu quello di correre verso mia madre che si trovava sul balcone intenta a stendere il bucato e cercare mia sorella e il mio fratellino. Ancora oggi non ho capito come siamo riusciti tutti e tre a fare quelle due rampe di scale e uscire di casa. La scossa principale durò 90 secondi, e vi assicuro che sono un’eternità quando tutto - attorno e sotto di voi - si muove e crepita in modo sinistro e si è in preda al terror panico. Piatti e bicchieri scaraventati fuori dalle dispense sono un altro dei ricordi fissati nella mia testa.
La casa non crollò, ma fu danneggiata. La stessa esperienza, intanto, la stavano vivendo altre migliaia di persone al buio e in situazioni, in quel momento, più drammatiche della nostra. Fu una notte trascorsa all’addiaccio lontani da case pericolanti e avvolti in coperte attorno al fuoco, con vicini di casa e parenti in attesa dell’alba più surreale della nostra vita. Lo sciame sismico continuò per tutta la notte e nelle settimane successive. Le notizie di crolli e di morti, anche al mio paese, cominciarono a diffondersi subito, e con esse la consapevolezza di star vivendo un dramma collettivo. Scoprii dalle parole delle persone più anziane che la terra dove ero nato ballava spesso. Era sismica, come tutta la dorsale appenninica dal sud fino su alle porte di Modena e oltre, come il Friuli per esempio. C’era chi ricordava il terremoto del 1962 e chi quello del 1930, azzardando subito paragoni su quale evento fosse stato più potente. I telegiornali nazionali di allora ci misero un paio di giorni prima di parlare della reale situazione in cui si trovavano l’Irpinia e la Lucania. Fino al 25 novembre i soccorsi erano latitanti. Celebre fu in quell’occasione l’indignazione di Sandro Pertini, il presidente partigiano.
La mattina del 25 novembre arrivò anche mio padre da Zurigo, dopo aver guidato tutta la notte e senza notizie di noi. Fu fortunato: ritrovò sana e salva la famiglia, ma per altri emigranti non fu così. I miei si convinsero in quelle settimane che l’idea di ritornare tutti in Italia non fosse più realizzabile. Una manciata di giorni dopo eravamo tutti ad Affoltern am Albis. I vicini di casa svizzeri dei miei per Natale ci fecero avere un cesto con cioccolato, caramelle, mele rosse e Lebkuchen. Un gesto che ricordo ancora oggi, a distanza di 40 anni, e che vale per me più di tante parole: dolcezza per alleviare il trauma. Con l’anno nuovo ci trasferimmo in Ticino, ritenuto da mio padre un cantone dove noi bambini, a digiuno di svizzero-tedesco, ci saremmo potuti integrare meglio. Ed eccomi qua, ticinese d’adozione, grazie a quella sliding door di 40 anni fa.
La scossa fu percepita in quasi tutta l’Italia peninsulare, dalla Sicilia Orientale alla Pianura Padana. I suoi massimi effetti distruttivi e morti (grado X della scala Mercalli) si ebbero in sei paesi: Conza della Campania, Lioni e Sant’Angelo dei Lombardi in provincia di Avellino; Castelnuovo di Conza, Laviano e Santomenna in provincia di Salerno. Tutti i 119 comuni della provincia di Avellino subirono danni. La ribalta nazionale per una regione discostissima arrivò in modo drammatico e non voluto. Il resto d’Italia scoprì paesi e toponimi stranamente situati a sud – Torella dei Lombardi, Guardia dei Lombardi – e si rinsaldò, per un momento, la solidarietà nazionale. Essendo stata colpita un’area povera e di storica emigrazione, la situazione economica divenne tragica. Nelle zone interne dell’Appennino campano-lucano, la cui economia era basata sull’agricoltura, sulle rimesse degli emigranti e sulla gestione di piccole attività, la struttura sociale ed economica mutò profondamente. Ricomparvero i flussi migratori che si erano andati affievolendo negli anni precedenti e nel contempo arrivò anche una pioggia di miliardi (di lire) che generò l’illusione di un rilancio. Non fu così, anzi il terremoto dell’Irpinia divenne, ingiustamente, il modello sbagliato di una ricostruzione infinita, di spreco di denaro pubblico e malaffare. Altri eventi tellurici negli anni avrebbero preso il posto del terremoto dell’Irpinia: Assisi, L’Aquila e Amatrice per citare gli ultimi la cui gestione del post non è stata cristallina. Ma l’Irpinia rimane l’emblema di questa somma di errori.
Franco Arminio
‘Viaggio nel cratere’ (Sirone Editore, 2003)
Il poeta ‘paesologo’ ci fa conoscere i borghi fantasma e le storie di chi li abitava del dopo terremoto dell’Ottanta.
Vinicio Capossela
'Il paese dei coppoloni' (Feltrinelli Editore, 2015 )
Racconto fantastico del cantautore modenese d’adozione,
su luoghi e persone dei paesi dei suoi padri. Una sorta di ritorno a Macondo.
Lina Wertmüller
‘È una domenica sera di novembre’ (Rai, 1981)
Film documentario che ripercorre in modo egregio quanto successo nei giorni e settimane successivi al 23 novembre 1980.
Eugenio Bennato e il gruppo Musicanova
‘Brigante se more’ (Philips Records, 1980)
Eugenio Bennato
‘Questione meridionale’ (Taranta Power, 2011)
Il Risorgimento italiano visto dai perdenti, diciamo così.