Distribuiscono cibo ai più poveri, dove non c'è acqua, si vive uno sopra l'altro: le testimonianze di ticinesi dalle favelas di San Paolo e Rio de Janeiro
“Qui in Brasile, il Covid-19 gira a briglia sciolta, nessuno fa il necessario, da parte del governo non c’ è alcuna volontà di intervenire. In queste condizioni non sappiamo fino a quando durerà. Da mesi siamo senza un ministro della sanità ed un ennesimo militare - che è un esperto di logistica - occupa il posto ad interim, risultato: in piena espansione della pandemia, la sanità è allo sbando. La fame si fa sentire, soprattutto nelle favelas. Ora la fame fa più paura del virus”, ci spiegano i coniugi Alberto e Adriana Eisenhardt. Da nove anni hanno lasciato il Ticino e vivono nel distretto Pedreira, nella periferia Sud di San Paolo, dove gestiscono la “Casa dos curumins”. Curumins significa ‘casa dei ragazzi’ dove giovani delle favelas imparano musica, disegno, informatica, possono far fiorire i loro talenti, imparare un lavoro e costruirsi un futuro. In tempo di pandemia, la Casa ha stravolto i suoi piani, ora si confezionano mascherine (e ceste), si cucinano e distribuiscono pasti caldi, ceste di cibo, perché la fame rischia di ucciderti prima del virus. A San Paolo, regione più colpita dal virus, tutte le scuole e le attività ritenute non essenziali sono chiuse dal 23 marzo 2020. “Vediamo tutti i giorni gente disperata. Dentro le favelas, i piccoli commerci sono aperti, ma non circola denaro. Si vive ammassati gli uni sopra gli altri, anziani e giovani nello stesso locale, avere un tetto e l'acqua corrente è un lusso. Si doveva coordinare gli aiuti subito, ma non è stato fatto nulla. È un disastro! ” racconta Alberto.
L'unica mensa aperta, forniamo scatole di cibo per 500 famiglie
Intanto alla Casa dos Curumins, ci si è rimboccati le maniche. “A tutti i nostri funzionari abbiamo garantito il salario pieno sino a fine anno, insieme prepariamo cibo, materiale di protezione e di igiene per tutte le famiglie dei ragazzi accolti nei vari progetti. Nel distretto Cidade Ademar-Pedreira - che conta con 450mila abitanti di cui più di 80 mila vivono nelle favelas - siamo l’unica associazione che ha tenuto aperto la cucina, ogni giorno forniamo pasti caldi che molti ragazzi vengono a ritirare in modo scaglionato e consumano a casa. Montiamo scatole, le riempiamo di alimenti per le 500 famiglie registrate da noi, lo faremo finché la situazione lo richiederà, per questo usiamo anche fondi raccolti in Svizzera. Molte nostre attività ludiche e didattiche si sono spostate su piattaforme digitali dove gli educatori interagiscono coi ragazzi e anziani”. Il virus ha già contagiato giovani e familiari legati al progetto dei due ticinesi: “Qualcuno ha già avuto morti in famiglia e la situazione non prevede nulla di buono, poiché la popolazione è abbandonata al proprio destino,” ci spiega la coppia.
Il ministro della sanità è un militare, esperto di logistica
Superato il milione di casi e oltre 60mila, il Brasile è da settimane l’epicentro mondiale della pandemia. Sembra un film surreale, il virus circola libero e da oltre un mese il gigante sudamericano è senza una guida sanitaria: due ministri della salute sono stati spediti a casa perché non assecondavano la linea negazionista del presidente. “Avevamo un buon ministro, elogiato da tutti gli esperti, ma era tutti i giorni in tivù, il suo protagonismo ha dato fastidio al presidente che l’ha cacciato. Ne è seguito un altro, che ha lasciato quando il presidente lo voleva costringere a dichiarare che l’antimalarico (prodotto anche dall’esercito) curava il Covid-19. Ora c’è ad interim un militare esperto in logistica: un signor nessuno che ha dato luce verde alla cura del presidente”.
Intanto la stagione invernale è alle porte col rischio che il coronavirus diventi ancora più aggressivo. A parte la corruzione e gli interessi privati messi prima di quelli collettivi, il grande problema del Brasile sono le analisi epidemiologiche e la carenza di test per disegnare un vero diagramma del virus e la sua dimensione. Le statistiche del governo sono inaffidabili. “I numeri ufficiali sono totalmente inaffidabili, gli esperti dicono che andrebbero moltiplicati per 5”. Il Paese sta pagando a caro prezzo il negazionismo di Bolsonaro, che ritiene il coronavirus una 'febbricciattola' ma dovrà ricredersi visto che in queste ore il leader brasiliano lo sta vivendo sulla sua pelle, essendo risultato ieri positivo al Codiv-19, dopo aver sfidato i rischi di contagio, partecipando spesso a incontri pubblici senza mascherina e senza distanziamento sociale. Molta gente crede al presidente e non si tutela.Molta gente crede al presidente e non si tutela. “Qui c'è un brutto clima. Viviamo nel caos sanitario, politico, economico, sociale, caratterizzato da una decadenza etica e morale senza precedenti. Il governo ha montato una rete di ‘fake news’ manipolando milioni di persone che, vista la grande disinformazione, fino a ieri credevano alle menzogne di Bolsonaro. Ora che il virus ha seminato la morte in tante famiglie, parte della gente della periferia sta aprendo gli occhi e ha paura”.
Martellante campagna di disinformazione
La campagna di disinformazione è stata continua. “Bolsonaro è appoggiato da molti pastori evangelici, sono il megafono del suo governo. I poveri seguono i pastori e la grande ignoranza (70% analfabeti funzionali) fa il resto. Quando la gente si ammala e va al centro sanitario, ormai non c'è più nulla da fare, li rimandano a casa a morire. Ora il presidente sta puntando per riaprire tutto, minimizza la situazione. Chi era precario prima della pandemia, ora fa la fame. Restare a casa è un privilegio che la maggior parte della gente delle periferie non può permettersi, oltre al concetto di casa… e condizioni sanitarie”, aggiunge Alberto Eisenhardt. Se ripartire significa aprire centri commerciali e chiese evangeliche allora non c'è da essere ottimisti.
'Restiamo qui per resistere all'attuale ondata di oscurità'
Chiedo ai coniugi ticinesi, se viste le avversità non hanno mai pensato di tornare in Ticino. “Questo virus fa parte della vita, qui da sempre imperversa la violenza e si può morirne, conviviamo con altre malattie altretanto pericolose ed ora c'è la fame ad aggravare il tutto. Quello che davvero ci preoccupa è il disinteresse per l’istruzione, per le ONG che disturbano il potere perché stimolano la popolazione ad abbandonare la posizione di spettatori per assumere quella di protagonisti della propria vita e sarebbero da spazzare via. Mia moglie ed io non abbiamo mai pensato di andarcene, sarebbe tradire i nostri principi, la fiducia accordataci dalla comunità e dai tanti sostenitori che credono nella missione di Casa dos Curumins, vogliamo tenere il timone della nostra attività umanitaria e resistere all'attuale ondata di oscurità”.
L’11 luglio, i musicisti della Casa dovevano suonare all'Estival Jazz, dalle favelas al palco di Lugano. ‘Per i nostri ragazzi, per noi e la comunità della Pedreira era un sogno che si è avverato, come toccare il cielo. Ma il coronavirus si è inghiottito anche questo spicchio di felicità. Ci sarà un'altra occasione, il nostro ostinato ottimismo alimenta i sogni senza i quali non potremmo farcela a superare le tante incertezze del quotidiano brasiliano.”
Cosi si vive dentro Rocinha a Rio de Janeiro tra muffa, topi, senza acqua
La ticinese Laura Perletti vive da due anni e mezzo a Rio de Janeiro, dove lavora per l’ONG ‘Il Sorriso dei miei Bimbi, l’educazione cambia la vita’ in una delle favelas più grandi del continente latinoamericano: Rocinha. Qui si occupa di coordinare la Casa Jovem che sostiene 80 ragazzi nella loro formazione. La pandemia ha spostato tutte le attività online. La situazione è drammatica: “I test sono pochi e non vengono fatti. Si continua a cambiare il metodo di calcolo di contagiati e morti, il risultato è la totale opacità dei numeri. Nelle favelas, come Rocinha, il Covid-19 ha fatto tanti morti, ma non si sa quanti, tanti hanno perso il lavoro e il vero problema ora è la fame. Penso soprattutto alle donne con 3 o 4 figli, molte si sono messe a confezionare mascherine per sostenersi”, spiega la ticinese che ora vive chiusa in casa, uscendo solo una volta a settimana per la spesa. “Qui si vive giorno per giorno. Mi proteggo al massimo stando a casa, che è un vero lusso che pochi possono permettersi. Cerco di essere utile all’associazione da casa, anche per trovare donatori. Anche se riaprono i ristoranti non ci andrò. Bus e treni sono pieni di persone, lo pagheremo tra qualche settimana”.
Economicamente è molto difficile: “Non c’è una presa a carico del governo, non ci sono linee guide chiare, per il presidente il Covid-19 è una febbriciattola, in verità il virus sta mettendo in evidenza disparità già esistenti”. Nella favelas dove è attiva la ticinese, la quotidianità è una lotta, anche se la comunità si aiuta ed è resiliente: “È un agglomerato di case, costruite un piano sopra l’altro, dove c’è uno spazio è della comunità, chi arriva prima lo occupa (per uno shop, per farci una stanzetta), non filtra il sole e non circola aria, la tubercolosi è molto presente, le fogne sono all’aria aperta, spesso i rifiuti sono dove non dovrebbero essere. Muffa, topi e infiltrazioni sono la norma. In queste condizioni il virus circola e semina morte”. Un passo del governo in realtà c’è stato: i nuovi lavandini nella favelas, dove l’acqua è un lusso. “Ma tutti toccano, c’è chi li usa per farsi una doccia e nessuno disinfetta. Sarebbe stato più utile sistemare le fogne e dare l’acqua a tutti. Qui a volte le soluzioni sono di facciata, ma non cambiano la situazione”, conclude la ticinese.