Dico la verità: sono un giornalista, eppure sono contento di non dover lavorare sull’attualità della guerra tra l’Unione Sovietica e l’Ucraina. E comprendo i colleghi che qualcosa han pur da mettere in pagina, magari dubitando di tutto quel che scrivono e riportano. Non hanno molta scelta, perché le fonti sono quel che sono, e dire che il rubinetto delle agenzie butti solo acqua distillata non lo può provare nessuno. Lasciamo che questa guerra finisca (speriamo il più presto possibile) e poi tireremo le somme, il compito di giudicare toccherà a chi avrà i mezzi per farlo. Per Srebrenica siamo pur arrivati a un punto fermo, no? Per ora, purtroppo, i fondamentali del nostro mestiere stanno andando tutti a pezzi. La ricerca impossibile, la pressione psicologica e morale altissima, le trombe della propaganda. Propongo un esempio.
"Fosse comuni a Bucha"? Senza l’interrogativo (come su "laRegione" di oggi) è come se il giornale dicesse: sono a Pregassona, le abbiamo viste noi. Sappiamo che non è così. E allora? "Fosse comuni" ci ricordano lo sterminio degli ebrei operato dalle SS, a non molte decine di chilometri da lì, nei primi due anni della seconda guerra mondiale. Inermi allineati sull’orlo della fossa, un colpo alla tempia e giù nel mucchio. Ma potrebbero anche essere una dimostrazione di umanità: di chi raccoglie cadaveri disseminati lungo le strade e li depone, come può, in uno scavo sul quale i sopravvissuti possano raccogliersi per piangere e pregare. Di quale caso si sia trattato a Bucha, al quale possiamo credere, dipende dalla fonte di cui disponiamo. Quale fonte? Da quelle dei belligeranti è obbligatorio diffidare. Pur simpatizzando per l’Ucraina (perché è pur sempre il Paese aggredito, la Russia il Paese aggressore) io dico che almeno un punto di domanda dietro il titolo sarebbe stato al suo posto.