Il fuoco brucia da un anno nel modo più devastante a Gaza e sta già andando ‘oltre le dimensioni geografiche di questo problema’
Mai, come in questi mesi seguiti al micidiale attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023, è risuonata come una campana a morto la parola “odio”. Un odio atavico contrario agli intenti di pace e di resilienza che lo Stato d’Israele, voluto dalla comunità internazionale nel 1947 per dare una terra di accoglienza al popolo vittima dell’Olocausto, avrebbe dovuto incarnare. Oggi il mondo si rende conto di un peccato originale, quello della suddivisione impari di una terra che prima del 1947 era per l’80% abitata da arabi-palestinesi sotto mandato britannico. E questo, si badi, non è un’affermazione frutto delle solite tifoserie sorte dopo l’inizio dell’operazione “Spade di ferro” lanciata da Israele contro Gaza in risposta all’eccidio di Hamas. Oggi si deve contestualizzare e far uso della memoria storica citando un uomo, primo ministro, presidente israeliano, Nobel per la pace insieme a Yitzhak Rabin nel 1994: Shimon Peres (1923-2016).
Nel 1998 in occasione del cinquantesimo anniversario della nascita di Israele, Peres scrisse un testo fondamentale pubblicato allora da “Le Monde Diplomatique”. Peres vi cita Theodor Herzl, giornalista e scrittore austro-ungarico, che nel 1886 pubblica il manifesto Judenstaat e fonda il Movimento politico sionista. Peres lo cita ricordando il suo progetto: quello di “un popolo senza terra” che cerca “una terra senza popolo”, “non cosciente – precisa Peres – dell’esistenza di una popolazione araba in Palestina, né della sua evoluzione futura”. Peres nel 1998, 4 anni dopo gli accordi di Oslo, mai andati in porto e costati la vita a Rabin, assassinato da un estremista sionista nel novembre del 1995, scrive che “Israele non ha ancora raggiunto l’obiettivo centrale: una pace globale con i vicini arabi e la soluzione della questione palestinese. In effetti, perché Israele rimanga un Paese ebreo, sia sul piano demografico che sul piano morale, ha bisogno dell’esistenza di uno Stato palestinese.” Peres ammonisce che “senza una soluzione, la questione palestinese rischia di accendere un fuoco che andrà oltre le dimensioni geografiche di questo problema, a causa della sua storia, della prossimità dei Paesi arabi e dell’esistenza di un’importante diaspora palestinese in quei Paesi”. “Abbiamo il dovere – conclude Peres – di riparare l’errore che abbiamo commesso... di riannodare nuove relazioni col popolo vicino e portare la pace globale nel Vicino Oriente, per il bene del mondo intero”.
La soluzione la portavano gli accordi di Oslo: la soluzione dei Due Stati, oggi sempre più lontana e difficile a causa di un governo, quello di Netanyahu, tenuto in piedi da estremisti messianici appartenenti a quella frangia religiosa fondamentalista che aveva armato la mano di Ygal Amir, l’assassino di Rabin. Difficile anche perché la Cisgiordania è stata via via colonizzata con la forza, con atti violenti perpetrati contro la popolazione locale palestinese con la copertura e il sostegno dell’esercito israeliano. Oggi le colonie illegali ebraiche in Cisgiordania sono abitate da oltre 700mila israeliani. Israele continua in modo permanente a violare tutte le risoluzioni dell’Onu che intimano allo Stato ebraico di sgomberare i territori occupati.
Oggi il discorso di Shimon Peres ci appare tragicamente profetico: il fuoco brucia da un anno nel modo più devastante a Gaza e sta già andando “oltre le dimensioni geografiche di questo problema, a causa della sua storia, della prossimità dei Paesi arabi e dell’esistenza di un’importante diaspora palestinese in quei Paesi”. Basti pensare a quanto succede in questi giorni al martoriato Libano e alla minaccia tutt’altro che vaga di un’estensione del conflitto all’Iran. Una soluzione potrà arrivare solo se imposta dall’esterno bypassando gli opposti estremismi.