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Il ponte si è piegato

(Ti-Press)

Questa immagine-simbolo, assieme a tante altre, ha fatto il giro del mondo. La valle Maggia si è piegata sulle proprie gambe accasciandosi al pari del ponte di Visletto. In Lavizzara e in Bavona si è piegata anche la gente, mentre stavolta la Rovana è stata risparmiata, ma, lo sappiamo, in passato ha già ampiamente pagato pedaggio.

Tutti a immortalare ponti caduti, auto rovesciate, case distrutte. Più difficile invece radiografare l’animo umano, pur sapendo che è lì che ha colpito più forte la tragedia. L’inevitabile spettacolarizzazione dell’evento traumatico dà la misura della portata del disastro, ma non rende sufficiente giustizia alle ferite profonde inferte ai valligiani e a quanto avviene sulla e sotto la loro pelle. Le ferite nell’intimo del loro animo sono quelle che fanno più male, quelle che intaccano la voglia di resistere, di reagire, di rilanciare la lotta e sono quelle che saranno più dure da rimarginare. Ogni trauma che colpisce l’essere umano ha delle fasi e passata l’iniziale ubriacatura anestetizzante, ti si para davanti la cruda realtà con il dolore e lo sconforto che ti assalgono nella loro compiutezza: da lì in poi ci saranno i momenti peggiori per la comunità e, purtroppo, so di cosa parlo.

Soprattutto le persone più anziane non si capacitano di quanto accaduto, sono incredule e disorientate per l’eccezionalità dei danni occasionati dalla furia della natura che, assemblando alcune circostanze particolari, ha sfregiato la loro montagna. Si ha l’impressione che la natura matrigna si sia vendicata di brutto riversando fiumi impetuosi e ruggenti tinti di marrone, colate di fango emananti odore di terra, polvere di sassi e ghiaia che ti prendevano il naso quasi a soffocarti. Il tutto accompagnato dai rumori assordanti, dai lampi ininterrotti e dalle pietre che rotolavano dentro i corsi d’acqua. La valle è diventata un catino infernale in cui il gigante cattivo, con la complicità della notte, ha rovesciato le auto spostandole come voleva lui, le case le ha avvinghiate e talvolta sbriciolate con tutto quello che stava dentro, ha eroso i prati che i contadini avevano appena falciato o si apprestavano a farlo. I contadini, colonne portanti per le comunità montane, escono falcidiati da questi eventi: alcuni hanno perso la stalla o anche le bestie, altri sono impossibilitati a operare, così come avviene con le altre ditte locali.

L’uomo ha assistito inerme perdendo tutto d’un colpo le certezze, talvolta anche la sua arroganza, privato delle stampelle tecnologiche che sembravano metterlo al riparo da tutto.

In qualche ora quello che in un paio di generazioni, a gran fatica, la comunità di Lavizzara aveva realizzato, in particolare il Centro sportivo e la scuola, è stato inghiottito dalla furia delle acque, o è stato seriamente danneggiato e, quel che peggio, ciò che rimane è situato in una zona ora ancora più pericolosa. Cosa fare pensando alle riparazioni o al rifacimento delle infrastrutture? Evacuazione e ricostruzione altrove, oppure allestimento di un progetto di messa in sicurezza della zona con un riparo che devii il fiume sul versante destro della montagna? Domande e azioni a cui porre priorità sul percorso verso la normalità, semmai ci potrà ancora essere.

Ora, con il sole che splende, l’acqua, ancora macchiata di terra, corre tranquilla nel suo letto, ma la sua coscienza rimane sporca e lo sarà a lungo e noi confidiamo che il mostro, prima o poi, non si risvegli.

Gli enti cantonali e federali, la politica in genere, come reagiranno a questi eventi traumatici avvenuti qui e altrove sull’arco alpino? Agli innumerevoli messaggi di solidarietà seguiranno coerentemente le azioni? Si vorranno salvare le valli più esposte, quelle più colpite, oppure si cederà alle sirene tentatrici che predicano le teorie dell’evacuazione e dell’abbandono, perché queste zone hanno un costo pro-capite troppo alto? Riflessioni che le calamità di queste settimane pongono d’attualità e che dovranno rimbalzare nei consessi politici del Paese. Sarà un vero banco di prova per sapere come agiranno il Ticino e la Svizzera nei confronti delle regioni martoriate dal maltempo.

La Svizzera in passato di fronte alle difficoltà si era affidata al ridotto alpino, mentre qualcuno oggi inneggia al ridotto urbano potando il nostro paese dei germogli periferici. Noi auspichiamo che la strada da percorrere rimanga quella ampiamente collaudata in passato con gli equilibri ragionati e trasparenti fra le zone basse e le zone alte, in una complementarità virtuosa che ha assicurato il benessere e la fortuna del nostro Paese.

Le persone coinvolte devono superare la prova e sedimentare i vissuti traumatici del presente, ma è indispensabile già da ora lanciare lo sguardo sugli scenari futuri riguardanti la Lavizzara, la Bavona, la Rovana e la valle Maggia tutta. Nessuno può chiamarsi fuori e le popolazioni di valle non devono gettare la spugna: l’identità alpina si caratterizza per la reattività agli eventi calamitosi e la storia ce l’ha insegnato a più riprese, ma questa volta sembra veramente troppo.

Prima di chiudere queste riflessioni a caldo, giungano ammirazione, riconoscimento e condivisione nei confronti di tutti gli enti di pronto intervento (pompieri, polizia, protezione civile, esercito, colonne di soccorso e tanti altri) che, con centinaia di persone al fronte giorno e notte, hanno risposto capillarmente ai bisogni urgenti, riuscendo con grandi sforzi a ridare un po’ di normalità e anche speranza alla comunità di valle in grosse difficoltà.

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